giovedì 22 novembre 2007

Bar Claudio/2. Scopiazzature da gente molto più in gamba di me

Lo avete mai visto un cielo arancione?
Non capita spesso, ma si vede quando c'è la foschia bassa su cui si riflettono le luci dei lampioni.
Stamattina il cielo di Roma è così, arancione e pesante di una foschia densa e impensabile solo qualche anno fa, ma adesso a Roma c'è anche la nebbia, che manco in Brianza, alle volte.
Che poi dico stamattina, ma in realtà per me è ancora notte fonda, anzi la notte, quella del sonno, deve ancora arrivare. Cammino per una via buia, che i lampioni qua sono un optional, un giorno a settimana, in genere il lunedì, poi si rompono e rimangono così, scheletri ciechi fino al lunedì successivo, quando li riaggiustano per poche ore, poi si rompono ancora e si ricomincia da capo.
Per fortuna in lontananza c'è l'insegna del bar Claudio, a segnare la rotta per questo marinaio ubriaco, troppe ondate alcoliche da smaltire per mantenere le rotte, e poi, stamattina, le stelle non ci sono nemmeno, affogate dalla foschia.
Claudio è lì, dove lo avevo lasciato ieri sera, occhiaie d'ordinanza e servizio in automatico, che questa più che mai è un'ora da aficionados.
Gli basta uno sguardo e un grappino mi passa tra le mani. Il bicchiere della staffa, che “questo lo offre la casa”, così, perché a Claudio gira bene. Forse ha passato una bella notte, chissà. O forse gli gira così e basta, meglio non indagare, che a Claudio le domande piacciono poco, e a me a quest'ora di farle non è che mi vada molto.
Mi vergogno quasi a chiudere la mia nottata gomito a gomito con i “clienti del mattino”: berretti di lana, parka d'ordinanza e scarponi anti-infortunio, cappuccino e due cornetti, che una dura giornata di lavoro ancora ha da cominciare.
Li guardo tra le volute del fumo di svariate sigarette, che chi se ne frega della legge Sirchia, questa è l'ora del lupo e chi mette il naso fuori di casa lo fa a proprio rischio e pericolo, e lo sa bene. Che sarà mai qualche minuto di fumo passivo?
Sono a metà bicchiere quando a darmi man forte entra qualcun altro che la notte ancora deve incominciare: la chiamano Flavia, centimetri e centimetri affusolati su tacchi che sfidano non tanto le leggi della fisica quanto quelle della logica. Apparentemente più donna di tutte quelle che ho conosciuto biblicamente, ma con ogni probabilità più uomo di me, volendo ridurre tutto a una mera questione di centimetri. Grappino anche per lei - o lui fate voi. “È fine serata bello, metà prezzo, solo per te” mi sussurra.
Mi illudo che sia per un puro e umano desiderio di carne fresca, dopo una notte in Prenestina inoltrata dentro e fuori dal raccordo, e non per pagarsi sigarette e pranzo dell'indomani, o di oggi, fate voi.
Per stanotte ne ho viste abbastanza, lascio Claudio tra gli sbuffi della macchina del caffé, e mi concedo il sonno, del giusto o meno, fate voi.

martedì 20 novembre 2007

Bar Claudio/1. Scopiazzature da gente molto più in gamba di me

Bancone di formica laccato verdino, sedie di legno nero e vimini, tavolini incellophanati che così si puliscono prima. In un angolo i giornali di oggi – il Messaggero e Il Corriere dello sport, e come ti sbagli? – tutti spiegazzati, sporchi di grasso d’automobile – Gino il carrozziere – e unti di patatine e tramezzino, segno che la giornata è quasi finita. Io e Claudio ai due lati del bancone, ciascuno al suo posto, consapevole del suo ruolo. Un bicchiere a testa, rosso per me, che non è mai troppo presto per un goccio di quello buono, cedrata per lui, che ancora c’è da pulire tutto e buttare la spazzatura.
La porta si apre, entrano gli anni ’70: 1,80 per un quintale almeno, avvolto in un pesante loden verde scuro, occhiali di corno spessi quanto una bottiglia di ferrarelle, di quelle che ti portava a casa il garzone nella cassa gialla, tutte verdi di cui però una su sedici era bianca e chissà perché ti sembrava sempre più buona delle altre. Borsello di pelle e mocassini di cuoio. Chiede un caffè, e ti stupisci che gli venga servito in tazzina bianca ‘haiti’ e non marrone dentro bianca spessa sette millimetri. Tira fuori due euri che sembrano cinquecento lire, incassa il resto e se ne va.
Il professore” dice Claudio, “era da ‘n po’ che ‘n se vedeva”. Vive rintanato in una mansarda con vista Casilina, ma dopo il fiume di macchine e il trenino si vede l’acquedotto, e scrive la ‘Storia del vino. Dalla preistoria all’Italia dei sommelier’, ma a guardarlo bene sembra che si dedichi più allo studio della materia che alla sua futura divulgazione.
Velocissimo apri-e-chiudi, tic-toc da tacco 12 e sbuffo di chanel n° 5. Non serve neanche girarsi per sapere che è scoccata l’ora della ‘bionda’, Federica. Bella e impossibile e per questo è ancor più bella, schiocchi di bacetti lanciati all’aria per coerenza col personaggio e cicaleggio di ‘tesoro mio’ e ‘bello come stai’. Rapido accavallarsi di gambe che promettono il paradiso senza mantenere mai, almeno al di là di Porta Maggiore, secondo i maligni che forse c’avevano sperato più del lecito.
Il mio bicchiere è vuoto, e per stasera va bene così.

Ogni cosa al suo posto




Bicchiere insaponato, sciacquato e asciugato con il panno giallo, a sua volta appeso bello steso sull'appendino sopra i fornelli. Una passata di spugnetta – da riporre poi nel contenitore di plastica appeso alle piastrelle sotto lo scolapiatti – sul lavello, per non lasciare le macchie di detersivo. Bicchiere riposto nello scaffale sopra i fornelli.
Fece tutto automaticamente, con la mente momentaneamente altrove, nel posto strano e lattiginoso dove passava la maggiorparte del tempo.
Una volta richiuso lo scaffale però un pensiero irriguardoso, forse addirittura cattivo, sicuramente sbagliato: “Perché tutta questa manfrina di lavasciuga se tra poco io stesso riberrò da quel bicchiere? Non sarebbe più comodo lasciarlo lì, vicino al lavandino, usarlo tutta la giornata e magari lavarlo la sera?”
Rispose sua madre: “Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”.
“Grazie mamma”, disse ad alta voce, pur essendo come sempre da solo. Sua madre aveva un proverbio adatto a spiegare e a dare indicazioni su come comportarsi in ogni situazione.
“Sì ma il posto di quel bicchiere non potrebbe essere lì, sul lavandino o sul tavolo o sul bracciolo della mia poltrona?”.
Un altro pensiero non conforme, il secondo in pochi minuti. Forse era il caso di prendere la pillola blu? Anzi, a dirla tutta era il terzo, visto che poco prima di alzarsi per bere aveva chiuso il giornale per vedere se sulla pay-tv davano qualche film decente, senza trovare nulla che valesse la pena guardare. Eppure lo sapeva, a quell'ora, le cinque del pomeriggio, in tv non davano niente, per questo suo padre gli aveva intimato di leggere il giornale tra le quattro e le sei, tra il riposino post-prandiale e la sua visita quotidiana, così da avere qualcosa di cui discutere nelle due ore in cui sarebbero rimasti assieme.
Non gli dispiaceva essere informato, sapere quello che succedeva nel mondo, e poi “Di tutte le malattie, l’ignoranza è la più pericolosa”, diceva sempre sua madre.
Però quel pomeriggio, alla vista di un articolo in cui un ministro delle finanze accusava le congiunture sfavorevoli della scarsa crescita del paese, si era veramente infastidito: da anni sempre la solita solfa! Eppure sapeva che non era bene discutere le notizie che arrivavano dall'alto. Gliel'aveva spiegato suo papà, quando lui era piccolo. “Un buon cittadino obbedisce alla legge senza farsi troppe domande!”, un'affermazione e un tono che non ammettevano regole.
Troppi pensieri sbagliati, quel pomeriggio, decisamente doveva pendere una pillola blu. Come diceva il dottor Levi, lui non era cattivo, o sbagliato. Semplicemente alle volte gli venivano delle idee bislacche, e le pillole servivano a rimetterlo in carreggiata. Blu per cominciare, rosse se la situazione diventava più seria. Aveva imparato ad amministrarsi da solo, 'autocontrollo', lo chiamava suo papà. Era solo questione di tempo, diceva il dottor Levi, e presto non avrebbe avuto più bisogno delle pillole. “Chi fatica in giovinezza, gode i frutti in vecchiezza.” il parere di sua madre sulla faccenda.
Già, ci voleva una bella pillolina blu.
“Vado subito mamma!”, esclamò immaginando lo sguardo di rimprovero di sua madre, se avesse potuto sentire quei pensieri.
Tornò in cucina, prese le pillole dal primo cassetto, quello delle medicine. Bicchiere d'acqua, un unico sorso, lavasciuga, pulizia del lavandino, straccio, spugnetta e bicchiere al proprio posto, e via in poltrona a leggere il giornale.
Dall'economia agli spettacoli, poi lo sport e la cronaca locale. Tanto ancora da leggere, ce l'avrebbe fatta appena per l'arrivo di suo padre, alle sei in punto, come tutti i giorni. Una lettura distratta, giusto per incamerare i fatti salienti, come ormai aveva imparato a fare, per fare contento suo padre. Ma quel pomeriggio non era cosa. Il silenzio della casa lo opprimeva, hai voglia a dire “Dall’albero del silenzio pende per frutto la tranquillità”, come la mamma. Quel pomeriggio avrebbe tanto voluto scambiare quattro chiacchiere con qualcuno, con un amico. Eh sì che fino a poco tempo prima, prima del fattaccio, di amici ne aveva parecchi. Ai suoi non piacevano, “un branco di debosciati”, aveva sentenziato suo padre. “Amico di ventura niente vale e poco dura!”, la mamma. E con il dottor Levi erano stati d'accordo nell'attribuire la colpa del fattaccio ai suoi amici, a Giampiero, in particolare. Eppure avrebbe potuto chiamarli, in effetti con loro non aveva litigato. Chissà, forse lo avrebbero capito. Giampiero sicuramente.
Un altro pensiero sbagliato. Sbagliatissimo addirittura. Forse la pillola blu non avrebbe fatto effetto, o forse ci avrebbe messo un po' più del solito.
Certo che stavolta l'aveva pensata grossa. Un pensiero da pillola rossa, quasi. “Scusa mamma” mugolò spaventato.
E poi non avrebbe potuto chiamare nessuno. Aveva sì un telefono, ma ogni mese con la bolletta arrivava la lista delle telefonate a suo padre, e avrebbe scoperto tutto, vedendo un numero diverso dai tre – mamma, papà e dottor Levi – che gli era concesso chiamare.
Non gli era proprio andata giù questa storia della 'bolletta trasparente', “chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere!” avevano sentenziato all'unisono mamma e papà dopo le sue rimostranze. Una delle frasi più amate dai dittatori, aveva letto una vita fa, quando ancora poteva scegliersi le letture.
Avrebbe potuto uscire sul terrazzo, vedere un po' di gente, almeno dall'alto, ma da casa sua la vista non era un granché. Vedeva viale Parioli, fiumi di macchine e di gente indaffarata a fare 'cose', tutti di corsa e nervosi. E di fronte il palazzo dei suoi.
Però avrebbe potuto usare il computer, che non era controllabile. Certo, in teoria poteva usarlo solo dalle 9 alle 11, quando sua madre gli puliva casa, e buttava un occhio sul monitor per vedere cosa stesse combinando. E poi era protetto da password. Lui però aveva scoperto la password che aveva no scelto i suoi, e la connessione era di tipo 'flat', quindi nessun report in bolletta. Giampiero aveva un blog una volta, prima del fattaccio. Poteva provarci, e poi cancellare le pagine viste dalla cronologia, che non si sa mai.
Oddìo che pensiero orrendo! Ingannare così i suoi genitori e il dottor Levi! Decisamente aveva bisogno di una pillola rossa.
Mentre pensava così però era già entrato nella sua stanza da letto. Lì, sulla scrivania, il suo portatile, chiuso. Accanto al pc, come anche sul tavolo della cucina, sul mobile del soggiorno e sulla mensola del bagno, la madre aveva amorevolmente appoggiato una pillola rossa, per i casi estremi. La prese in mano e la tenne stretta, mentre accendeva il pc. Comparve la schermata che richiedeva la password. “Cicciolo”, aveva sempre detestato quel nomignolo. Strinse il pugno con la pillola sulle labbra, mordendosi le nocche. La stava facendo davvero grossa! “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino!”, così si era opposta sua madre alla sua richiesta di avere un computer, sostenendo che sarebbe stata una tentazione troppo grossa. Ma il dottor Levi era stato d'accordo con lui, e aveva convinto i suoi. “Deve imparare a dominare i propri istinti. Il computer è solo il primo di una serie di piccoli passi” aveva detto. E adesso lui stava per tradire la fiducia del dottore.
Ma d'altronde non avrebbe fatto nulla di male. Voleva solo sapere qualcosa di Giampiero. Si sarebbe accontentato di vedere se aveva ancora un blog, se casomai scriveva qualcosa su di lui, l'amico perduto, sul fattaccio. Non l'avrebbe contattato. Forse.
“Scusa mamma, scusa papà, mi scusi dottore”.
Sbriciolò la pillola tra le dita e aprì il browser.


continua... (forse)

venerdì 16 novembre 2007

La rovesciata di Parola





Tanto per spezzare un po' l'elenco di demoni, fantasmi e morti ammazzati.


Carlo Parola. Il nome ai più non dice niente, forse, ma lo conosciamo tutti come una delle icone più belle della nostra infanzia: la rovesciata delle figurine Panini, il gesto tecnico più bello del calcio reso immortale da decenni di figurine. Pensavo a lui quella mattina, una grigia mattina di dicembre in cui tutto faresti tranne che uscire dal letto alle 8:00 per andare a giocare a pallone. Invece io andavo proprio al campo sportivo, e camminando – troppo freddo per il motorino – pensavo a Parola che spazzava la sua area in rovesciata e immaginavo un gol così, anche solo per sapere cosa si prova. La partita valeva tutta la stagione: derby della categoria allievi contro quelli del paesino sull’altro lato del fiume. Vincendo ci saremmo trovati primi in classifica, ma non ce ne fregava poi molto, l’importante era vincere il derby, il resto veniva dopo. E invece la partita fu una delle più squallide dell’intero torneo, di quelle che quando l’arbitro fischia la fine è un sollievo per tutti. La palla rotolava ormai verso la linea di fondo e verso il triplice fischio che avrebbe sancito quell’ignobile 0-0. Il terzino avversario l’aveva ormai battezzata fuori. Ma non conosceva Ivano. Lui, Ivano, non era uno qualunque. Scarpone come ne ho visti pochi, ma credeva all’impossibile. Quella volta scattò come se qualcuno gli avesse infilato un intero mazzo di peperoncini dove non batte il sole, lasciò basito l’improvvido terzino impegnato in un goffo tentativo di protezione della palla e svirgolò al centro un cross improbabile come la Pasqua di Maggio. Vidi il pallone impennarsi in una traiettoria che sfidava tutte le leggi della fisica e, forse ammirato da ciò, decisi di fare altrettanto. Il mio corpo elastico di sedicenne si produsse in una serie di movimenti in contemporanea: torsione, salto e “bicicletta” e collo piede sinistro a incocciare in pieno il pallone, che finì la sua corsa sotto il “sette” del palo più lontano. Fu silenzio, e poi un boato di ammirazione. In campo i miei compagni correvano ad abbracciarmi e a portarmi in trionfo. In tutto ciò io esultavo smadonnando perché il campo di terra e pietre del paesello aveva deciso di lasciare sulla mia chiappa destra il ricordo di un gol capolavoro. Il gol che valeva la partita dell’anno, realizzato con un gesto immortale, di quelli che se ti riescono davanti a una telecamera sei un fenomeno. Manco a dirlo, le telecamere al nostro campo sportivo non si erano mai viste, però ancora adesso al bar ho sempre il caffè pagato, e quando passo la gente si dà di gomito e dice “Guarda! Arriva quello delle figurine Panini”.

lunedì 12 novembre 2007

Il sogno/1 - Parte Undicesima



Riassunto:
Una casupola, quadrata, pochi metri per lato, in mezzo a una radura circondata da un bosco, da sempre evitata dagli abitanti dei paesi circostanti a causa delle strane leggende che si raccontano. È proprio a causa di una queste – secondo cui la casupola sarebbe un punto di contatto tra il regno di morti e il nostro mondo – che Alfredo una notte decide di recarvisi, nella speranza di riuscire a rivedere la sua Gabriella, morta qualche mese prima. Il ragazzo riesce nel suo scopo, grazie all'aiuto di tre strani personaggi che incontra nella radura: Erlik (Penna Rossa, dalla penna che porta in testa, il capo della comitiva), Gorka (vestito da cowboy, appassionato di rock anni '70) e Lamiah (una strana ragazza più simile a un troglodita che a un normale essere umano che parla per versi gutturali). I tre promettono di aiutare Alfredo a rivedere la sua donna più volte, in cambio di oggetti di uso quotidiano (dischi, vestiti), il ragazzo però non potrà assolutamente toccare Gabriella, né tantomeno portarla fuori dalla radura, in più non può sapere quando, come e per quanto tempo gli sarà concesso incontrarla. Successivamente però le cose si complicano: Lamiah riappare come una splendida donna e tenta di sedurre Alfredo, mentre Gorka lo scaccia dalla radura e gli annuncia che gli sarà concesso di incontrare la sua donna solo un'altra volta. Alfredo per vederci chiaro va a casa di Sterina, una vecchia del suo paese che per prima, quando era un bambino, gli aveva raccontato della casupola. Arrivato a casa della vecchia però, vede Lamiah uscire dalla porta. Tenta di inseguirla senza riuscire a raggiungerla. Si ferma a un bivio, e sente una mano poggiarsi sulla sua spalla.

[...]

“E tu che ci fai qua?”

Alfredo non sapeva cosa rispondere, non poteva certo dire come fosse finito lì, in più la sorpresa gli impediva di inventare una qualsivoglia scusa. “Niente... non sto facendo niente... tu piuttosto... cosa ci fai qua?” Rigirò la domanda a sua volta, contento di essersi liberato dal peso di dover inventare una risposta plausibile.
“Beh, io qui ci abito, o te ne sei dimenticato?”. Gli rispose come si risponde a un bambino che chiede di colore è la luna. “Sono contento di rivederti, Alfredo, tornavo giusto da casa tua”.
“E cosa c'eri andato fare?”. Il tono era duro, arrogante, e non rendeva affatto bene il mix di delusione – per aver perso la ragazza – e di sorpresa e gioia per l'incontro inaspettato.
“Andavo a dare acqua alle piante!”. Il tono finto–esasperato della voce che Alfredo conosceva molto bene.
I due risero, poi si abbracciarono.
L'altro ragazzo era Luca, il migliore amico di Alfredo. I due si conoscevano da quando avevano preso consapevole coscienza del mondo che li circondava, e forse anche da prima, visto che erano nati con poche ore di distanza.
“Dai, vieni con me, andiamo a berci una birra”, disse Luca, apparentemente non disposto a repliche negative.
“Ma è tardi – Alfredo, incurante della risolutezza dell'amico – a quest'ora il bar è chiuso”.
“Sì ma Franco sta facendo le pulizie, se glielo chiediamo ci lascia le chiavi e qualche birra fuori. Non ti preoccupare, dai, è una vita che non ci si vede”.
La replica dell'amico bastò a convincere Alfredo, che, ormai convinto di non poter più riprendere la ragazza, era tutto sommato contento dell'incontro imprevisto.
Come detto da Luca, Franco il barista lasciò il bar aperto solo per loro, con l'impegno di non sporcare troppo, spegnere tutte le luci, chiudere bene la porta e non fare entrare nessun altro, sebbene a quell'ora sarebbe stato ben difficile trovare qualcuno in giro in cerca del bicchiere della staffa.
Luca, che conosceva bene il suo amico e aveva un notevole tatto, accompagnò le prime due birre con chiacchiere sui fatti suoi, il suo lavoro di psicologo presso la ASL della città, unico agglomerato di una certa importanza nel raggio di decine di chilometri, le sue beghe sentimentali, calcio e pettegolezzi.
Alfredo gli fu grato della delicatezza e, un po' per le birre un po' per la riscoperta di sensazioni quasi dimenticate, stava meditando se mettere a parte Luca degli assurdi avvenimenti dell'ultimo mese: da una parte avrebbe avuto piacere di condividere tutto con qualcuno, e chi meglio del suo migliore amico? Dall'altra però, sapeva bene che quello che aveva da raccontare era a dir poco incredibile, e non era sicuramente saggio parlarne con uno strizzacervelli, nonostante l'amicizia che li legava. Tuttavia Luca, oltre che psicologo, era anche un grande appassionato di esoterismo, conosceva miti e leggende dai quattro angoli del globo e collezionava libri esoterici anche molto antichi. Quindi forse, in qualche maniera avrebbe potuto aiutarlo...
“Tu invece, come te la passi?” Luca interruppe i pensieri dell'amico con la più prevedibile delle domande.
Alfredo bevve un lungo sorso, posò il bicchiere, e, tenendo gli occhi fissi sul tavolino, prese a giocherellare con il posacenere.
Stava per rispondere, quando la porta si aprì.
“Scusatemi ragazzi, ho bisogno di bere...”. Era Michele, uno dei carabinieri della caserma locale, unico avamposto dello stato in quell'ammasso di casette dimenticato da dio e dagli uomini.
“Ciao Michele, veramente sarebbe chiuso... noi siamo qui solo perché Franco ci ha fatto un favore...” rispose Luca.
“Lo so che è chiuso... ma ne ho troppo bisogno”. Rispose il carabiniere, impeccabile nella sua divisa ma visibilmente stravolto. Raggiunse il retro del bancone e, senza dare tempo ai ragazzi di rispondere, aveva già riempito e vuotato e riempito di nuovo un bicchiere di whisky.
“Ehi... ma cosa... cosa è successo?” chiese Luca, era evidente che a quel pover'uomo era successo qualcosa. Paonazzo in viso, sudato, gli occhi stravolti, i capelli grigi vistosamente arruffati, per quanto permetteva il suo taglio da militare. Ormai prossimo alla pensione, non aveva decisamente vissuto una vita carica di 'emozioni forti'.
L'uomo vuotò rapidissimamente un altro bicchiere, il terzo, in neppure un minuto, eppure ne sarebbero serviti almeno altrettanti per tranquillizzarlo, così a occhio.
“Hanno ammazzato la vecchia Sterina”, disse d'un fiato, vuotando il quarto bicchiere.

Interludio

Gorka guardò quell'immenso camino. Non era la prima volta che entrava in quel salone, tuttavia l'enormità di quel camino lo colpì come puntualmente avveniva ogni volta che se lo trovava di fronte. Alto da far entrare una persona di ragguardevole statura in piedi, senza problemi, e largo da ospitarne almeno quattro–cinque, una accanto all'altra. Ai due lati del focolare stavano due sedili di pietra. Su uno di questi, alla destra del fuoco, stava Penna–rossa.
Gorka ignorò la solita processione di uomini e donne, alcuni dei quali risucchiati tra fiamme azzurrognole da eleganti porte di legno massiccio, che lo circondava. Guardava fisso il suo amico.
Con indosso un rozzo pantalone mimetico da militare sotto una giacca settecentesca tutta strappata e sdrucita Erlik decisamente stonava con quell'ambiente elegante, tuttavia non sembrava preoccuparsene o rendersene conto, intento com'era a fumare nervosamente una sigaretta.
Una volta arrivato al filtro la gettò nel fuoco. Dopo di che prese tra le mani un tizzone acceso e lo usò per accendersene un'altra, per poi rigettarlo nel fuoco.
“Nervoso?” Gorka cercò di rompere il ghiaccio.
“No” rispose, gelido, Penna–rossa.
Gorka si stupì per la rabbia dell'amico. Tremava tutto, quasi impercettibilmente. Lo guardò meglio, sarebbe sembrato innaturalmente immobile, non fosse stato per la penna che traballava tra i lunghi capelli neri. “Cos'è successo?”
“Sta succedendo di nuovo Gorka” disse l'altro, rapido, come per togliersi un peso.
“Cosa?”. Chiese sapendo già la risposta.
“Lo sai benissimo”, tagliò corto Penna–rossa.
“Lo ha... lo ha...”
“Già. Lo ha fatto di nuovo. Ancora non è successo l'irreparabile ma credo che ormai manchi molto poco”.
“Ma... dobbiamo fare qualcosa...” disse tremando di terrore l'ex rockettaro, ora vestito come un damerino del '700, con tanto di parrucca. Sulla sua giacca però, faceva bella mostra una spilla a forma di Fender Statocaster.
“E cosa vorresti fare?” ruggì l'amico “Stavolta ci siamo dentro anche noi!”.
“Ma... noi non abbiamo fatto niente di male...”
“E qui ti sbagli Gorka. Quello che noi abbiamo fatto è tollerato. Ma non vuol dire che sia permesso” si fermò, tirando una lunga boccata dalla sua sigaretta. “Se succede qualcosa, ci andiamo di mezzo pure noi”.
“Allora... cosa facciamo?” chiese Gorka spaventato.
“Non possiamo fare nulla” rispose l'altro, terribilmente serio. “Lei è più potente di noi due messi insieme, e ormai è sfuggita al nostro controllo”.
“Potremmo intervenire su di lui... sul ragazzo...”
“A dirla tutta ci sto provando ma... non so se funzionerà”.
“Perché non dovrebbe funzionare? E poi come... come sarebbe a dire che ci stai provando?”
“Gli ho ordinato di non andare più dalle parti della casupola”.
L'altro lo interruppe “Ma sei matto? E noi come facciamo?”
“Noi possiamo benissimo continuare senza di lui, lo sai bene”.
“Sì ma...”
“Nessun ma!” gridò l'altro. Le pareti del salone tremarono, e qualcuno dei partecipanti all'assurda processione che aveva luogo in quel salotto si girò stupito a guardare quel che succedeva. “Neanch'io sono contento, ma questo adesso non è un problema. La verità è che questa storia deve finire il più presto possibile. E comunque Alfredo vedrà un'altra volta la sua donna”.
“E tu come lo sai?”
“Gli ho promesso un ultimo incontro, ma gli ho detto che saremo noi a cercarlo, per tenerlo buono e prendere tempo. Per nessun motivo dovrà più avvicinarsi alla casupola”.
“E... e quando ci sarà quest'incontro?”
“Non lo so Gorka, dobbiamo pensare a qualcosa, a lui non basterà certo un ultimo incontro, e ormai, con Lamiah dalla sua parte, può benissimo fare a meno di noi. Dobbiamo muoverci, prima che lui lo scopra”.
“E allora cerchiamo la sua donna, portiamola da lui e chi se ne frega!”.
“Non basterebbe. Abbiamo bisogno di qualcosa che lo tenga lontano per sempre dalla casupola”.
“Allora ammazziamolo e basta!” Gorka era quasi isterico, sull'orlo delle lacrime.
“Idiota – ringhiò l'altro – sai benissimo che saremmo scoperti e puniti in modo terribile. Forse però..” la frase fu troncata da una terribile scossa, come in un terremoto di inaudita violenza. Durò pochissimo, ma bastò ad aprire vistose crepe nelle pareti del salone. Gorka cadde a terra, si alzò rapidamente e vide che l'amico era caduto nel fuoco. I vestiti e i capelli cominciavano a bruciare, ma lui restava immobile, rannicchiato in posizione fetale, lo sguardo fisso nel vuoto.
“Erlik! Tirati su, stai bruciando!”
“Gorka... – rispose l'altro, indifferente alle fiamme che ormai lo avvolgevano tutto – è terribile... terribile... lei... lei... ha ucciso!”
Migliaia di anime gridarono all'unisono, mentre un esercito di guardiani armati di picche e bastoni invadeva la sala.




mercoledì 31 ottobre 2007

La bambina




La bambina era lì, ai piedi del letto. Era una bella bambina, con lunghi riccioli rossi che le scendevano sulle spalle, occhi azzurri e il viso pieno di lentiggini. Non fosse stato per quei lacrimoni che le rigavano il faccino lui l'avrebbe considerata una piacevole apparizione notturna. Invece quello sguardo gli pesava in petto come un macigno.
“Chissenefrega – pensò – è soltanto un sogno, solo un sogno e nulla di più”.
Ma la bambina restava lì, immobile, e lui non riusciva a chiudere gli occhi né tantomeno a distogliere lo sguardo.
Stava per darsi un pizzicotto, un morso sulla lingua, una capocciata al muro, qualsiasi cosa per svegliarsi, quando la bimba si mosse.
Alzò la mano, puntando l'indice contro di lui, e il suo cranio cominciò a deformarsi: la tempia destra si spostò repentina verso il basso mentre l'occhio fuoriusciva lentamente dall'orbita per cadere a terra con un disgustoso rumore liquido, e dove prima c'erano solo riccioli rossi si apriva uno squarcio rosso.
Lui rimase senza fiato, la bocca era spalancata ma i polmoni non pompavano abbastanza aria per gridare.
Poi, così come era apparsa, la bambina sparì, i suoi polmoni tornarono a regime e quello che doveva essere un grido si trasformò in un rumoroso sospiro.
Accese la luce, tutto era in ordine. Nessuna traccia di bambine né di teste implose o occhi schizzati dalle orbite.
“Un brutto sogno... già... sono stanco... nervoso...” pensò di ripiombare nel sonno.
La mattina successiva il sole e il traffico di Roma contribuirono a far sparire del tutto gli ultimi residui di una più che comprensibile inquietudine.
Continuava a pensare a quella bambina, questo sì, ma in maniera fredda e razionale.
“La stanchezza, la paura per questo dannato serial killer, sì... deve essere per questo che ho fatto un sogno così strambo... ma perché poi una bambina? Mah... poverina poi... la stessa fine orribile di tutta quella gente... e del povero Mattia...”
Mattia, il suo migliore amico, vittima con altre 48 persone del “serial killer delle teste sfondate”, come lo aveva ribattezzato un giornalista privo di fantasia ma con un notevole senso dell'horror a colmare il gap. Un pazzo che ammazzava la gente con un ciocco di legno di quercia, come aveva appurato la polizia. Un colpo solo, secco, sulla tempia destra, a sfondare il cranio e via, nel nulla da dove era venuto, visto che non lasciava mai nessuna traccia. Aveva ucciso per strada, nelle camere da letto, in ascensore, nei boschi senza che nulla - un'impronta, un capello, uno schizzo di sangue o saliva - di non appartenente alle vittime fosse mai rinvenuto. In pratica, a Roma e dintorni, vivevano tutti nel terrore, visto che le vittime non avevano niente in comune tra loro.
Pensieri foschi, mentre il tram traballava non troppo spedito verso la stazione Termini.
All'improvviso, come un flash, di nuovo la bambina.
Sorridente, le mani dietro la schiena, la testa inclinata da un lato, i piedini incrociati.
Indiscutibilmente lei, sul giornale del tipo alla sua destra.
Si sporse per leggere meglio, era una pagina di necrologi.
“Ahò che cazzo voi! - lo apostrofò il compagno di viaggio – Anvedi questo, guarda che 'sto giornale lo danno aggratis, pijatelo pure te si lo voi legge, sennò vattene affan...”
Non sentì la prevedibile fine della frase. Il tram si era fermato vicino a una fermata della metro, lì avrebbe trovato il giornale che quel tipo aveva in mano.
Si fiondò per le scale urtando un bel po' di persone, corse fino alla rastrelliera ma... finito. Il giornale non c'era più. D'altronde a quell'ora di lì erano già passate decine di migliaia di persone.
“Pazienza – pensò – di farmi tutta la linea A per rimediare una copia non se ne parla, però oggi niente università. Vado da Valentina.”
Valentina, la sua ragazza. Casualmente abitava a poche centinaia di metri dalla metropolitana. L'aveva conosciuta insieme a Mattia, proprio un anno prima, in treno. Bella ragazza, allegra, disponibile, aveva filato un po' con tutti e due, poi lei aveva scelto lui, e Mattia non se l'era presa più di tanto.
Arrivò sotto al suo portone, una folla impediva l'ingresso, accalcata attorno a un cordone di carabinieri. Si fece largo a spintoni.
“Che succede qui! Fatemi passare!” gridò.
“Chi è lei? Vive qui?” gli chiese il carabiniere più vicino.
“No, ci abita la mia ragazza che succede?”
Il carabiniere abbassò lo sguardo.
Balbettò qualcosa, poi arrivò la barella.
Steso sulla lettiga, un corpo coperto da un lenzuolo bianco. I capelli biondi che cascavano fuori gli spiegarono tutto, così come la forma innaturalmente deformata della testa che si intuiva sotto il lenzuolo.
Un conato di vomito gli risalì l'esofago. Corse via, entrò nel primo bar fiondandosi in bagno. Vomitò, gli sembrò di riprendersi, un poco.
Poi dei singhiozzi, alle sue spalle.
Si girò.
Ancora la bambina.
Era nell'angolo vicino la porta, le mani lungo i fianchi e il corpicino scosso dai singhiozzi. Il cranio orrendamente deformato e un'orbita vuota, grosse lacrime dall'unico occhio.
“Non voglio... non voglio... io non sono cattiva...”
Lui deglutì, cercando qualcosa da dire o da fare, ma riusciva solo a stare immobile, senza dire nulla.
“Ho disobbedito... ma non l'ho fatto apposta... io non sono cattiva...” continuava a ripetere tra i singhiozzi.
“Ma... che cosa stai dicendo? Io non ti conosco, non ti capisco...”
“Io non sono cattiva...” come un mantra, senza curarsi delle sue parole.
“E-ehm” alle sue spalle.
Una donna dal volto ossuto, rinsecchito, la pelle giallastra tirata sugli zigomi e la mandibola, le labbra consunte, due occhi troppo grandi per quel volto ridotto ai minimi termini. Il corpo spigoloso avvolto da un mantello nero.
“E tu chi sei? Che ci fai qui?” le chiese lui, confuso e terrorizzato. La bimba alle sue spalle continuava a piangere e mormorare.
“Povera piccola, ha ragione, lei non ha nessuna colpa – continuò la donna, senza rispondere alla sua domanda – anzi, dovresti anche esserle grato, in fondo ti ha regalato un anno esatto di vita”.
“Ma cosa cazzo stai dicendo? E chi cazzo siete voi due? Io esco da qui!” si avvicinò alla pporta badando bene di non toccare la bambina. Lei lo guardò, e scosse la testa.
“Non puoi, non puoi... mi dispiace...”
Lui non ci badò più di tanto, allungò la mano verso la maniglia della porta, sentendo solo legno liscio. Guardò in basso, la maniglia non c'era più. La porta era un unico rettangolo di legno plastificato bianco; senza serratura, maniglie, cardini sembrava un tutt'uno con le mura del bagno in cui si trovava.
“Un anno esatto fa, stava giocando sul bordo di una grossa strada, disobbedendo ai genitori – i singhiozzi della bambina aumentarono, mentre la donna continuava a parlare – la sua palla finì sull'asfalto, e lei, senza pensarci due volte, scavalcò il guard rail per andare a prenderla”.
La bambina adesso gridava a perdifiato, lui avrebbe voluto abbracciarla, consolarla, ma quel buco in testa e quell'orbita vuota erano troppo. “Ma come è possibile che da fuori non si accorgano di niente? - pensò – e io come faccio a venir fuori di qui?”
“Arrivò una macchina, a tutta velocità, la prese in pieno e la mandò a sbattere contro una quercia che stava a bordo strada, il risultato lo puoi vedere da te”
Le urla della bimba ora erano insopportabili, si fece forza e le prese una manina, fredda, come un ghiacciolo, però i singhiozzi rallentarono, un po' almeno.
“L'uomo che la investì perse il controllo della macchina e uscì di strada, morto anche lui”.
“Sì ma io cosa c'entro?” chiese per la seconda volta.
“Quell'uomo era un terrorista, nel bagagliaio aveva una borsa piena di esplosivo. Avrebbe preso un treno e si sarebbe fatto saltare in aria in mezzo ai passeggeri. Sarebbe morto con altri 50 passeggeri. Su quel treno viaggiavi anche tu, con il tuo amico e la tua futura fidanzata.”
“Quindi...”
“Sì. Dovevate morire, e io sono qui per rimediare” la donna lo interruppe bruscamente. Poi alzò un braccio puntando un dito vero di lui. La bambina riprese a gridare.
Lui sentì dapprima un fortissimo dolore sulla tempia destra, poi qualcosa cominciò a premere sulla base del collo. Il dolore divenne insopportabile mentre sentiva il suo occhio destro scivolare a terra tirandosi dietro un fiotto di sangue.
Il pavimento impiastricciato del suo sangue fu l'ultima cosa che vide.
Poi, più nulla.

giovedì 25 ottobre 2007

Ghost Hunting!

I ghost hunters non sono altro che moderni cacciatori di fantasmi. Molto lontani dai ghostbusters del cinema, si recano in luoghi che hanno fama di essere infestati con l'unico scopo di osservare fenomeni paranormali, spesso con l'aiuto di mezzi tecnologici come ad esempio telecamere o rilevatori di temperatura.


Hai mai fatto ghost hunting?”.
Glielo chiese così, tra un sorso di vino e un tiro di sigaretta, giocherellando con i suoi lunghi capelli neri.
Lui d’altronde non si scompose più di tanto, anzi. Da circa due ore parlavano a ruota libera tra i fumi del vino e delle dozzine di sigarette fumate, e quella, tra due appassionati di horror ed esoterismo come avevano appena scoperto di essere, era solo una domanda come un’altra, che lui peraltro le aveva chissà quanto involontariamente imboccato, chiedendole, pochi istanti prima “ma tu ai fantasmi ci credi per davvero o ti piace solo vederli al cinema?”.
“Io ci credo per davvero” aveva risposto lei sicura, e da lì, erano arrivati al ghost hunting.
“No, non l’ho mai fatto ma mi piacerebbe provare, prima o poi, ma finora non ho trovato nessuno disposto a passare una notte in qualche posto abbandonato da dio e dagli uomini in attesa di qualche lenzuolo svolazzante”. Lo disse noncurante e strafottente il giusto, non con un tono da ‘uomo che non deve chiedere mai’ ma abbastanza vicino, questo sì. In realtà fino a quel momento non era mai andato a caccia di fantasmi semplicemente perché aveva una paura fottuta, forse perché era cresciuto ascoltando ‘ghost stories’ dalle persone che amava di più, e che per di più asserivano di averle vissute in prima persona o quasi.
Tuttavia i riflessi rallentati dal vino e dall’ora che si faceva sempre più tarda lo avevano portato a quella risposta banale e stereotipata, ‘proprio quello che lei voleva dicessi’ pensò lui.
“Ma dai! È fantastico! Neanch’io sono mai riuscita a trovare qualcuno disposto a passare una notte intera con me in qualche casa abbandonata!”.
La velata allusione che colse maliziosamente in questa risposta non servì molto a tirargli su il morale, anzi. Intuì subito dove lei voleva arrivare e rabbrividì.
“Perché una sera di queste non andiamo da qualche parte? Qui intorno è pieno di luoghi infestati!”
“Ehr… sì… mi pare una buona idea! Però il posto lo decido io, ne ho giusto uno che ci viene comodo comodo”.
“Ah sì? E di che posto si tratta?”.
“È il vecchio palazzo di famiglia, vecchio di secoli in cui adesso abita solo un vecchio zio di mio papà. Lì pare che di fantasmi ce ne siano a dozzine”.
“Maddai! Del tipo? Raccontami qualche storia!”
“Bè… ad esempio… si dice che di notte per le scale si sentano dei passi… passi di donna sai, di scarpe col tacco insomma…oppure… in alcune stanze della casa non si è mai riusciti a dormire a causa di.. rumori.. sospiri… senso di soffocamento, in una in particolare… si dice che a un certo punto sentivi qualcuno che ti saltava sul letto…”. Era indeciso se raccontare anche la storia che girava più spesso s quelle vecchie mura, e di cui un paio di vecchie zie erano le ultime testimoni dirette. In famiglia se ne parlava poco e sempre malvolentieri, ed era un argomento considerato tabù quando c’erano estranei nei paraggi. Per fortuna l’entusiasmo della sua amica lo tolse dall’imbarazzo.
“Sembra fichissimo! Quando si va?”.
“Non saprei… così… all’improvviso…”
“Lunedì prossimo secondo me va bene”. Lei tagliò a corto facendogli un occhiolino. A quel punto lui, ripassate velocissimamente le possibili scuse, potè solo acconsentire.
“Sì va bene, lunedì prossimo va bene”.
Chiaramente mettere al corrente la famiglia di quel proposito era fuori discussione. Ma questo comunque non sarebbe stato un grosso problema, lui aveva le chiavi del portone e conosceva un paio di modi per entrare anche attraverso il cortile, forzando vecchie finestre o infilandosi in qualche cunicolo. In quanto al vecchio zio poi, quello che ancora viveva lì, in quel periodo era fuori per un lungo viaggio intorno al mondo. Insomma, nessuno avrebbe mai saputo nulla.
Il lunedì successivo lui trascorse la giornata in attesa febbrile di quella notte. La paura era sparita quasi del tutto, soppiantata da un’eccitazione febbrile all’idea di indagare finalmente e magari assistere a quei fenomeni di cui aveva sempre sentito parlare, ma che a casa sua erano vissuti come una cosa di cui vergognarsi. E poi, diciamolo pure, l’idea di passare una notte intera in stanze buia con lei gli garbava davvero. Gli era piaciuta da subito, e aveva anche impressione che la cosa fosse reciproca. Però un po’ per timidezza, un po’ per endemica inettitudine nei rapporti con l’altro sesso, non aveva mai fatto nulla per andare oltre una sporadica frequentazione condita da vino e sigarette ad accompagnare lunghe chiacchierate sul più e sul meno.
Si ritrovarono puntuali a poche centinaia di metri dal palazzotto di famiglia, un solido quadrilatero di tre piani, appoggiato a una vecchia torre di avvistamento, l’ultima rimasta in piedi tra tutte quelle attorno cui si sviluppavano le mura cittadine, anche questa compresa tra le proprietà di famiglia. Lui decise di passare proprio attraverso la torretta per entrare nel palazzo, non perché fosse l’unica via, ma perché sicuramente era la più suggestiva. Da lì, attraverso un minuscolo cunicolo che anche in famiglia conoscevano in pochissimi, si arrivava dritti dritti nel salone principale del primo piano, quello che per secoli era stato il salone delle feste, e che ora era pressoché abbandonato, usato solo in rare occasioni. Passaggi come quello si trovavano in quasi tutte le stanze del palazzo, retaggio di un’epoca in cui pirati e predoni imperversavano e bisognava ingegnarsi per salvare la pelle. Alcuni erano noti ma molti altri no, chiusi definitivamente da vari lavori di ristrutturazione oppure semplicemente dimenticati.
“Però, che lusso!”, commentò lei. Alla luce della luna che entrava dalle finestre si scorgeva una sala enorme, piena di specchi e dominata da un immenso camino in cui era possibile entrare in piedi, e che secoli prima aveva riscaldato le innumerevoli feste che lì si tenevano. Adesso un pesante tavolo di legno in mezzo alla sala faceva intendere che l'uso di quello spazio era decisamente diverso. Qualche cena tra notabili e poco altro, anche per le feste comandate la famiglia usava accomodarsi in un salone del piano superiore.
“Chissà quante feste qui...” continuò lei, camminando tra i mobili del '700.
“In verità non lo usiamo quasi mai, solo quando è proprio indispensabile... sai com'è... anche qui succedono cose strane...” rispose lui.
“Ma davvero? E non mi dici niente? Racconta dai!”, lei lo interruppe con entusiasmo.
“L'altra volta non ne ho avuto il tempo... e poi è una cosa che non raccontiamo molto in giro...”
“E dai! Non farti pregare, d'altronde m'hai portato qui apposta per vedere i fantasmi... o no?” disse lei, e lui lesse in quel 'o no' e in quello sguardo languido una neanche troppo velata allusione. Tuttavia si accomodò sul divano come se niente fosse, e cominciò a raccontare.
“In passato qui si tenevano delle feste bellissime. Venivano nobili da tutte le città vicine, alcuni addirittura facevano viaggi di ore ed ore pur di essere presenti. Ogni occasione era buona per una festa, e si dice che molte importanti decisioni politiche venissero prese nei salottini del piano di sopra, mentre qui si gozzovigliava”.
“Addirittura! E cosa si faceva in queste feste?” disse lei, tenendo tra le labbra socchiuse due dita.
“Mah... sai... ufficialmente si ballava... ma si dice anche che girasse roba... assenzio, coca, oppio... e poi che insomma, spesso e volentieri si finiva ammucchiati... non so se mi spiego...”
“Sì che ti spieghi...” disse lei accucciandosi sulla sua spalla. Mise mano alla borsetta e tirò fuori una canna già bell'e rollata. “A proposito di roba... ti va?”.
“Bè... perché no? La notte è lunga...”
“Sì... molto lunga...” disse lei accendendo il bombone, tondo e cicciotto, gonfio di marijuana.
“E poi… la storia delle feste è andata avanti molto a lungo, credo addirittura per un secolo, forse più” continuò la storia, prendendo tra le dita la canna che nel frattempo lei aveva acceso. “fino a quando, ottant’anni fa circa, non successe un dramma”.
“Un dramma? In una festa del genere? E cosa mai poteva succedere? Qualcuno andò in coma etilico? O in overdose?”, disse lei riprendendosi lo spino. Fumare le metteva sempre allegria.
“Era la festa per il ‘debutto in società’ di tale Annina, “ lui continuò imperterrito, ignorando del tutto la battuta. “La zia di mia nonna o qualcosa del genere. A un certo punto, qualcuno lanciò l’idea di giocare a nascondersi nelle stanze dietro questo salone. Passarono ore, come puoi immaginare, probabilmente qualcuno lo prese come pretesto per appartarsi”.
“Eh-eh” lei rise, ripassandogli la canna.
“Fatto sta che molte ore dopo si accorsero che Annina non c’era più. Tutti gli invitati che erano ancora in casa, o almeno quelli che ancora si reggevano in piedi, cominciarono la ricerca, guardarono dappertutto, nelle cantine, nelle soffitte, in tutti i passaggi segreti di cui all’epoca si era a conoscenza, anzi, quella notte, durante la ricerca, ne scoprirono addirittura di nuovi, di cui si ignorava l’esistenza”.
Fece una pausa per tirare due lunghe boccate.
“E… e poi… la ritrovarono?” glielo chiese con voce tremante. La storia drammatica, il buio, il freddo, le stavano facendo passare il buon umore.
“La ritrovò una domestica, la mattina dopo. Si era chiusa in un baule che si apriva solo dall’esterno, ed era morta soffocata”.
“Ma… ma… è una storia orribile! Perché me l’hai raccontata?”. Adesso con le dita tomentava i suoi lunghi capelli.
“Perché da allora in molti hanno sentito musica venire da questa sala, e qualcuno ha addirittura visto della gente ballare. Addirittura molti dicono di aver visto tra questi la povera Annina”.
“E… e tu? Hai mai visto o sentito qualcosa?”
“No, io mai. Però anche mio zio, quello che ancora vive qui, dice di aver sentito spesso la musica venire da qui, di notte”.
“Oddìo… e ancora ha il coraggio di dormire qua?”, adesso la voce le tremava dalla paura.
“Bè sai, è casa sua, è nato e sempre vissuto qui. E poi – aggiunse ridacchiando – dice sempre che i fantasmi che sono qui sono pur sempre nostri parenti, e quindi non c’è nulla da aver paura”.
“Sarà, però adesso ho davvero paura.”
“Se vuoi possiamo andare via… non ti preoccupare, magari torniamo un’altra volta”. Lo disse con troppa sollecitudine. In realtà moriva di paura anche lui. Quel salone lo aveva sempre inquietato, e non solo per la storia di Annina. Quel camino enorme, da cui si apriva la cappa, un immenso buco nero di cui non si vedeva fine, e che inghiottiva famelico le grosse fiamme dei fuochi accesi lì; tutti quelli specchi, che creavano strani giochi di riflessi e di ombre; le porte poi… che portavano nel dedalo di stanze e camerette e passaggi segreti dietro la sala… tutto contribuiva a rendere inquietante quel posto. Anche per lui, che in quella casa aveva passato praticamente tutta l’infanzia e che, come diceva suo zio, era tutto sommato parente stretto delle inquietanti presenze che si aggiravano in quei luoghi.
“Ma che scherzi?” rispose lei, buttando il mozzicone della canna, ormai spenta, nel camino. “Ho paura sì, ma d’altronde siamo qui a caccia di fantasmi. E poi… chissà, potrebbe non succedere nulla, almeno di quello che ci aspettiamo noi”, e si accucciò di nuovo sulla spalla del suo compagno d'avventura.
Peccato che lui in realtà, per quanto apprezzasse molto la maria, non fosse poi questo gran fumatore. Pochi minuti la fine del suo racconto infatti, per effetto della canna, si addormentò quasi di colpo, piegato sul bracciolo del divano con lei appoggiata sulla schiena, ancora spaventata ma adesso soprattutto seccata per l'effetto imprevisto che la fumata aveva avuto sul suo compagno d'avventura. Per sua fortuna in pochi minuti il sonno vinse l'inquietudine e si addormentò anche lei, di un sonno pesante, nero, senza sogni.
Il suo compagno al contrario dormiva agitato, non che stesse avendo degli incubi veri e propri, più che altro nel sonno aveva come dei 'flash' di immagini e sensazioni negative.
All'improvviso però immagini e sensazioni cessarono, lasciando spazio a una musica che veniva da chissà dove. 'È un valzer' pensò nel sonno, 'ed anche suonato molto bene'. Convinto di sognare aprì gli occhi e trasalì. Era sempre nel salone della casa di famiglia, solo che adesso lui e la sua amica, che dormiva accanto a lui, non erano più soli: decine e decine di persone vestite a festa affollavano la sala, illuminata da tre grossi lampadari e numerosissime candele. Al centro del salone molte coppie ballavano, altri invece chiacchieravano tra di loro seduti o in piedi, mentre molti invece entravano e uscivano.
'Non può essere' pensò 'è l'effetto delle chiacchiere e della canna, non c'è altra spiegazione'. Neanche il tempo di finire il pensiero, e una donna lo vide e gli parlò.
“Ma qui abbiamo altri ospiti. Meno male, questa festa finora è stata una vera delusione”. Indossava un lungo abito scuro con il collo di pelliccia e un'ampia scollatura, da cui si intravedevano i seni tondi e sodi. Il viso era incorniciato da capelli nerissimi tagliati a caschetto, tra le labbra un bocchino con una sigaretta accesa.
Gli si avvicinò, gli prese il viso tra le mani e lo baciò.
Fu un bacio profondo, sensuale, appassionato, e per lui fu facile lasciarsi andare. Si sentiva ancora intorpidito dal sonno, ma al contempo eccitato, come capita a volte sognando.
'Al diavolo è solo un sogno', pensò lasciandosi del tutto andare. Rotolò giù dal divano avvinghiato alla donna, e in men che non si dica si ritrovarono seminudi, nel mezzo di un amplesso furibondo. Sentì a un tratto gemiti e rumori inequivocabili provenire dal divano, guardò e vide la sua amica completamente nuda, gli occhi chiusi, la bocca aperta in lunghi gemiti appassionati, a cavalcioni su qualcuno che dalla sua posizione non riusciva a vedere.
Guardò sulla parete opposta, curioso di sbirciare la scena da uno specchio, e trasalì.
Tra le gambe lunghe e bianche della sua amica c'era un cadavere.
La pelle consumata, il bianco delle ossa che spuntava qua e là, il tutto reso ancora più orrido dai movimenti inequivocabili con cui quell'essere entrava e usciva dal corpo della ragazza che poco prima dormiva sulla sua spalla.
'Non mi piace più questo sogno, mi voglio svegliare' pensò, strizzando forte gli occhi, ma quando gli riaprì tutto era come prima. Fece per tirarsi su di scatto, ma scivolò e battè la testa sul pavimento. Il dolore gli annebbiò la vista, e toccando il punto che aveva battuto si bagnò le mani di sangue. Il dolore era reale, il sangue anche, ormai doveva essere sveglio ma la scena intorno a lui non cambiava: la gente continuava a muoversi nel salone, chi ballava, chi beveva, in qualche angolo vedeva altre coppie piacevolmente impegnate e la sua amica continuava imperterrita e forse ancora più coinvolta a cavalcare quel corpo immondo, in putrefazione.
Gridò.
La ragazza si interruppe, distratta dal grido, guardo l'amico e gridò a sua volta, guardandosi intorno.
Una rapida occhiata, e il ragazzo sentì un nuovo urlo nascergli in gola: la donna con cui pochi attimi prima si rotolava in terra, le coppie dei ballerini, i suonatori, tutti erano dei cadaveri ambulanti.
Trovò il coraggio per andare dalla sua amica e stringerla tra le braccia, maledicendo il momento in cui gli era venuta la malsana idea di andare in quella sala di notte.
“Che peccato, che peccato...” disse accorato l'essere che poco prima gli era apparso come una splendida donna. “avete capito tutto. Se vi foste lasciati andare sareste morti al culmine del vostro piacere, senza accorgervi di nulla. Adesso invece purtroppo sarete coscienti della vostra morte, e non sarà una cosa piacevole”.
La ragazza gridò di nuovo, iniziando a singhiozzare.
Lui cercò invece di conservare un minimo di sangue freddo. Deglutì, accarezzandole i capelli, e disse “perché... perché volete ammazzarci? Noi non abbiamo fatto niente di male!”.
“Forse no”, rispose un cadavere panciuto, vestito di una giacca di velluto che a suo tempo doveva essere stata molto elegante, ma adesso era tutta smangiucchiata. “Ma siete degli intrusi qui, e per questo dovete morire, mi dispiace ma è la nostra regola”.
Il ragazzo ripensò alle parole dello zio e decise di tentare. Era un'idea folle, certo, e anche un po' stupida, forse, ma al momento non ne aveva di migliori. “Un momento, io non sono un intruso, questa è casa mia, della mia famiglia”. E snocciolò nome, cognome, e tre o quattro generazioni che ricordava dall'albero genealogico appeso nell'androne d'ingresso.
Gli esseri si guardarono basiti, mormorando tra di loro. Uno strano figuro con grossi 'favoriti' attaccati non si sa come alla pelle marcia del viso si girò alla sua destra e disse “Annina, credi che sia vero?”.
Dalla folla venne avanti quella che doveva essere stata, in vita, una bellissima donna: alta, slanciata, con portamento aristocratico e lunghi capelli biondi che accarezzavano la fronte e il viso putrefatti.
“Potrebbe essere, d'altronde hai un aspetto familiare tu” rivolta al ragazzo, e poi, parlando alla folla “Ha ragione, lui non può essere ucciso”.
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo, ma durò pochissimo.
“Questo però non vale per la tua amica”.
La ragazza sussultò tra le sue braccia, emettendo uno strano verso che doveva essere un urlo strozzato.
“Un momento, come sarebbe a dire? Lei è mia ospite!”.
“Ragazzo, non tirare troppo la corda”. Disse minaccioso il tipo coi baffi.
“Ha ragione” aggiunse Annina “Possiamo risparmiare te, ma la tua amica non ha diritto di stare qui. Però è anche vero che è tua ospite, quindi le daremo una possibilità”.
La folla di morti viventi mormorò sorpresa.
“Nasconderemo la tua amica nel palazzo, e tu avrai tempo fino all'alba per ritrovarla, se non ci riuscirai, lei resterà qui con noi per sempre”.
Il ragazzo aprì bocca per ribattere, ma non ne ebbe modo.
Si ritrovò da solo nella sala buia e abbandonata, come era stata fino a poco prima.
Nell'oscurità echeggiò ancora la voce di Annina.
“Hai tempo fino all'alba per ritrovare la ragazza, poi resterà con noi”.
La stanza fu attraversata da una ventata gelida, poi tornò il silenzio più assoluto.
Il ragazzo si guardò intorno, cercando di convincersi che si trattava solo di un sogno, di un'allucinazione, che lui era lì per caso e che ora sarebbe tornato a casa sua, a dormire. Per terra però c'erano i vestiti della sua amica, la borsa che aveva con sé quella sera. Preso dal terrore saltò giù dal divano e spalancò la prima porta che trovò sul suo cammino.
Prese a vagare per sale e corridoi, percorse i passaggi noti e ne scoprì altri, da tempo dimenticati. Percorse in lungo e in largo soffitte e cantine, scalinate e ballatoi, guardò negli angoli, nelle cappe dei camini, nei sottoscala, ma non trovò nulla.
Corse e ricorse per tutto il palazzo, percosse muri alla ricerca di nuovi passaggi e stanze nascoste, a vuoto.
Quando ormai stava per rassegnarsi sentì dei singhiozzi provenire da una parete di uno dei corridoi principali. Lì aveva guardato e riguardato, ma poteva essergli sfuggito qualcosa.
Accostò l'orecchio al muro e sentì chiaramente l'amica singhiozzare. Era lì dietro, da qualche parte, la chiamò, lei rispose subito.
“Sono qui, sono qui, vieni a prendermi fai presto!”
“Eccomi... sì! Non aver paura! Arrivo subito!”. Corse via a cercare qualcosa per buttar giù quel muro, e tornò in pochi istanti con un pesante candelabro di ottone.
Cominciò a sbattere contro il muro con tutte le forze che aveva in corpo. L'ultimo ostacolo tra lui e la ragazza non era particolarmente solido, e dopo pochi colpi si aprì uno spazio sufficiente a farlo passare. Si lanciò nell'apertura, si vedeva poco, ma i singhiozzi erano vicinissimi, quasi come la ragazza fosse lì, a pochi metri da lui. Provò a chiamarla, ma non ottenne risposta.
Fece luce con l'accendino e si trovò davanti a uno scenario irreale: era in una stanza minuscola, massimo due metri per lato, ma il soffitto non si vedeva, guardando in alto appariva tutto nero, come se quella stanza arrivasse fino al cielo.
Capì subito cosa stava succedendo: la ragazza era da qualche parte sopra di lui, e i singhiozzi che sentiva erano portati dall'eco. Tuttavia non si perse d'animo, e fece per lanciarsi di nuovo alla ricerca, quando a un tratto, un urlo gli fece gelare il sangue nelle vene.
“Noooo!!! Noooo!!!! Lasciatemi! Non voglio! Noooo!”
Guardò ancora sopra di lui e vide che da qualche parte cominciavano a entrare i primi raggi di sole. Scoppiò in lacrime e scappò via, e non rimise più piede in quella casa.
Molti anni dopo un terremoto danneggiò il palazzo. Un operaio, durante la ristrutturazione, scoprì una stanza nascosta. Sul pavimento, rannicchiato, il corpo nudo di una ragazza dai lunghi capelli neri.



lunedì 8 ottobre 2007

Il sogno/1 - Parte Decima





[...]


La sera successiva, per la prima volta da un mese a quella parte, Alfredo non andò nel bosco. Non che non volesse, tutt'altro. Il desiderio e la speranza di rivedere ancora la sua Gabriella davano vita in lui a un'impellenza inaudita, più forte di qualsiasi bisogno fisico.
Quella notte però, quasi facendosi violenza decise di rimanere a casa, non per riposarsi – eppure ne avrebbe avuto un gran bisogno – ma per cercare di inquadrare in un filo logico gli avvenimenti che gli erano capitati da quando aveva deciso di violare il tabù della casupola. E, soprattutto, voleva dare un senso alle ultime parole di Lamiah della notte precedente: “Poi ti spiegherò come diventare più potente di lui”, gli aveva detto prima di mandarlo via. Come avrebbe potuto diventare più forte di un entità in grado di riportare i morti sulla terra, era per lui un angosciante mistero. Eppure sentiva che quello era l'unico modo per non separarsi di nuovo dalla sua donna. E poi chissà, se fosse riuscito a sconfiggere Erlik, probabilmente avrebbe anche potuto riportare in vita Gabriella. Non sapeva come infatti, ma sentiva che tra tutte le cose che gli aveva vietato Penna-rossa la prima volta che si erano incontrati, ce n’era almeno una che gli avrebbe permesso di riportare in vita la sua donna. Certo, poi sarebbero dovuti scappare da lì, nessuno in quel paese ignorava la morte di Gabriella, tutti avevano visto il suo cadavere nella bara. Ma quello era l'ultimo dei problemi, adesso Alfredo aveva tutt'altro a cui pensare.
Ripercorse mentalmente il momento in cui aveva preso la decisione di imbarcarsi in un'impresa folle, che nessuno degli abitanti del luogo avrebbe mai avuto il coraggio di intraprendere.
Ripensò a tutte le storie che aveva sentito su quel luogo misterioso, e che in larga parte aveva scoperto infondate. C'era chi diceva che fosse la dimora del diavolo, altri ancora sostenevano che lì, secoli prima, era stato consumato un terribile delitto, senza sapere bene chi avesse ammazzato chi, ma comunque qualcosa di così terribile che le anime delle vittime vagavano ancora nei dintorni, assetate di vendetta.
C'era infine, chi diceva che quella strana costruzione fosse un punto di contatto con l'aldilà, e Alfredo sapeva bene che questa era la versione esatta. Cercò di ricordare la prima volta in cui aveva sentito parlare di questa leggenda, e all'improvviso, tra il ricordo di una notte passata al cimitero con i suoi amici d'infanzia, scampoli di conversazioni 'paurose' con i cugini più grandi e chiacchiere al bar dopo tre–quattro–cinque birre, la mente gli si illuminò di un ricordo che oramai aveva rimosso: la vecchia Sterina abitava dietro la Chiesa, in una stradina arroccata quasi all'altezza del campanile, distante pochi metri in linea d'aria. Lassù non andava mai nessuno. Le case intorno alla sua erano tutte disabitate e diroccate, e in più su quella povera vecchia giravano strane voci. Si diceva che fosse una strega, che fosse in grado di parlare coi morti e di compiere chissà quali incantesimi. Lei in realtà passava le giornate ad intrecciare canestri davanti la porta di casa.
Ad Alfredo quella strana donna aveva sempre suscitato un misto di curiosità, simpatia e timore reverenziale. Finché un giorno, aveva undici–dodici anni circa, la incontrò sulla salita che portava a casa sua, china sotto un enorme cesto carico di legna per il camino. La aiutò a portarla fin su, e da allora prese ad andarla a trovare, di nascosto sia dai genitori – che lo avrebbero castigato – che dagli amici – che, più prosaicamente, l'avrebbero preso per matto.
Gli piaceva stare con quella vecchia, farle compagnia, guardarla intrecciare i canestri, darle una mano nei lavori pesanti. In cambio lei gli raccontava delle storie. Gli raccontava del marito, morto in guerra, dei suoi antenati, un tempo ricchissimi, tanto da possedere quasi tutto il paese, e poi misteriosamente, neanche lei sapeva spiegare come, caduti in rovina. E poi, soprattutto, gli raccontava le leggende del luogo, storie di streghe, fantasmi, gnomi e folletti. Ma mai, mai, mai, lei aveva accennato alla casupola.
Fin a quando una volta lui, colmo di curiosità, non aveva tirato fuori l'argomento.
Erano nell'unica stanza che costituiva la casa della vecchia, davanti a un fuoco scoppiettante. Dalla finestra si poteva vedere il cielo sbrilluccicante di stelle come lui non l'aveva mai visto. Era un tardo pomeriggio di dicembre, il cielo era scuro e limpido come può essere solo nell'ultimo mese dell'anno, e l'aria era satura della luce delle stelle orfane della luna e per questo ancora più luminose del solito, uniche padrone di quel cielo che dominava il paese vuoto sotto un'aria gelida da tagliare in pezzi ogni minima parte di corpo scoperta.
“Sterina, ma cosa c'è dentro quella casupola vicino al bosco? Perché nessuno ci si avvicina?”
La vecchia alzò lo sguardo dal cesto che stava intrecciando, guardò quel ragazzino curioso che da qualche tempo le aveva fatto riscoprire la gioia della compagnia, e poi guardò fuori, come se stesse chiedendo una risposta al cielo che faceva capolino dalla grande finestra accanto al camino.
“Non c'è niente lì dentro, Alfredo – stranamente, al contrario di tutte le vecchie del paese, lei parlava un ottimo italiano – quella casa è un tramite, un passaggio”.
“E dove porta?” insisté il ragazzino.
La vecchia sospirò ancora, poi tornò a intrecciare il canestro. Alfredo si era quasi rassegnato quando lei riprese a parlare. “Quella casa è un passaggio per il regno dei morti. A volte ai morti è concesso di passeggiare sulla terra, e da lì possono uscire e tornare nel nostro mondo. Solo per poco però”.
“Perché solo per poco? E perché allora la gente non va lì a vedere i propri cari morti?”
“Ma la gente questa cosa non la sa” rispose la vecchia, ignorando la prima parte della domanda.
“E tu perché la sai?”
“Io lo so perché lì andavo a incontrare mio marito, fino a pochi anni fa”.
“Tuo marito?”
“Sì, mio marito. Andavo lì quasi tutte le notti, quando le gambe me lo permettevano, e se ero fortunata lo trovavo lì fuori ad aspettarmi, e passavo la notte con lui”.
“E ora perché non ci vai più?”
“Sono vecchia e stanca, non ce la farei ad arrivare fino a lì. E poi ormai, mio marito me l'hanno portato via”. Parlava con tono indifferente, come se stesse facendo una lista della spesa. Però gli occhi cominciavano a inumidirsi.
Alfredo impietoso però, la incalzava. “Chi te l'ha portato via?”
La vecchia cominciò a singhiozzare, con le lacrime che si infilavano nei solchi scavati dalle rughe sul suo viso. “Una strega me l'ha portato via! Una strega! Alfredo, stammi bene a sentire, tu lì non ci devi mai andare, perché tu sei come me, tu hai il dono, e questa è una cosa molto pericolosa”:
“Quale dono?”
“Tu puoi vedere gli spiriti, e questo a loro piace, e non va bene. Promettimi che non ci andrai mai”.
“Lo prometto – certo di dire la verità – ma perché è pericoloso? E perché la strega si è portata via tuo marito?”
“Perché loro ne hanno bisogno. Hanno bisogno di noi vivi! È l'unico modo che hanno per...” Fu interrotta dall'orologio che suonava le sei del pomeriggio. Si riscosse, smise di singhiozzare, e intimò al ragazzino “Ora vai che tua madre ti aspetta, non farla stare in pensiero”.
“Ma la storia...”
“Te la racconterò domani. Ora vai, su.” Gli diede un bacio sulla guancia e lo mandò via. Poi però, uscendo da lì, Alfredo incrociò suo padre che era uscito a cercarlo, preoccupato di saperlo in giro con quel freddo glaciale.
Subì una delle sgridate più tremende della sua vita, e, chiaramente, non andò più a trovare la vecchia Sterina.
Erano passati quasi vent'anni da quella storia che lui aveva completamente rimosso.
Adesso che ricordava, decise di tornare dalla vecchia. Era ancora viva e abitava sempre lì. L'ora tarda non era un problema, lei aveva sempre dormito poco, e poi, se avesse visto la luce spenta sarebbe tornato indietro.
Arrivato alla strada dove abitava la vecchia si fermò un attimo ad assaporare i vecchi ricordi, pensando a quando arrivava lì circospetto e attento per non farsi vedere, e pieno di timore ed eccitazione per le storie che giravano sulla vecchia donna.
Stavolta invece si sentiva tranquillo. In fondo aveva visto ben di peggio che una povera vecchia sola e calunniata.
Stava per riprendere il passo quando vide una ragazza uscire dalla casa della vecchia. La luce in quel punto era flebile, ma riconobbe immediatamente Lamiah, nonostante il volto fosse coperto dal cappuccio del saio grigio che indossava.
La chiamò, lei non si girò, come se non avesse sentito, ma allungò il passo.
Alfredo cominciò a rincorrerla per i vicoli del paese. Un dedalo di stradine che si attorcigliavano tra di loro attorno la vecchia chiesa, chiunque non fosse stato pratico dei luoghi si sarebbe perso dopo massimo due o tre svolte. La ragazza però procedeva spedita, chiaramente in direzione del bosco. Così spedita che Alfredo la perse. Si trovò a un bivio, entrambe le stradine portavano fuori paese, ma per vie diverse. Rimase immobile a riflettere sul da farsi, nel buio e nel silenzio della notte.
All'improvviso sentì una mano sulla spalla.
Fu come se tutto il sangue delle sue vene precipitasse all'improvviso verso i suoi piedi. Si sentì mancare le forze per la paura e la testa ronzare come piena di uno sciame di api.
Poi si sentì chiamare.
Riconobbe la voce e, non sapendo se essere felice o disperato, si girò.



continua...


non c'entra nulla con il racconto, ma qui potete scaricare uno speciale su 'la casta', cui ho partecipato anche io.

sabato 6 ottobre 2007

Il sogno/1 - Parte Nona

[...]

Lamiah si fermò nel mezzo del lago. Distese braccia e gambe e si abbandonò al placido rollio delle acque. Chiuse gli occhi, assaporando l'energia che le scorreva potente tra le membra, godendo del silenzio che la circondava.
Adorava il suo rifugio. Lo aveva creato dal nulla nel corso dei millenni, ed era rimasto immutato nonostante tutto quello che era successo tra quelle nude pareti di roccia. Adesso era di nuovo abbastanza potente da impedire l'accesso a ospiti indesiderati e da spostarne l'ingresso in qualsiasi punto dell'universo in base alle sue esigenze.
Certo, il suo potere non era ancora così grande come avrebbe voluto, ma era solo questione di tempo, il suo piano andava a meraviglia, anzi, meglio delle sue più rosee previsioni: non solo si era rigenerata molto più velocemente del previsto, ma vedeva anche profilarsi all'orizzonte un'ottima occasione per realizzare i suoi più grandi desideri.
Mentre era immersa in queste riflessioni cercava in tutti i modi di tenere lontano un pensiero maligno che si affacciava prepotentemente nel quadro idilliaco che si andava disegnando nella sua mente.
Lo rimosse pensando al futuro di gloria che l'attendeva. Neanche lei era in grado di immaginare nei dettagli quello che le sarebbe successo una volta che tutti i tasselli fossero andati al loro posto, e questa incertezza sulla reale entità del potere e della felicità che l'aspettavano la faceva rabbrividire di piacere.
Peccato solo per quel pensiero cattivo che la tormentava, con la stessa insistenza di una zanzara particolarmente affamata.
Decise di affrontarlo, fiduciosa che le nuove energie che piano piano stava acquisendo sarebbero state in grado di domarlo.
Ricordò l'ultima – nonché unica – volta che si era sentita così sicura di sé. Le scelte che aveva fatto in quell'occasione e le tremende conseguenze che ne erano derivate. Ricordò il suo esilio millenario, la sensazione della sua essenza che regrediva progressivamente in seguito alla punizione che le era stata comminata, lo stupore esterrefatto che aveva accompagnato la presa di coscienza del suo fallimento.
I ricordi le provocavano un atroce dolore, ciò nonostante riuscì a dominare il pensiero della possibilità che un altro fallimento incombesse su di lei.
Aveva sbagliato una volta, adesso non lo avrebbe fatto più. Conosceva i rischi che correva, e sapeva esattamente come muoversi per evitare adesso l'errore che l'aveva condannata molto tempo addietro.
Sapeva bene che anche stavolta avrebbe avuto un’unica occasione, e che i suoi avversari sarebbero stati più vigili, memori di quanto era accaduto molto tempo prima.
Tuttavia sapeva che stavolta non avrebbe fallito.
Era disposta inoltre a correre un altro, ulteriore, rischio. Piccolissimo certo, ma pur sempre potenzialmente in grado di mandare all'aria tutto il suo piano.
Il buon senso le suggeriva di lasciar correre e attendere tempi migliori, ma la sua irrequietezza, rafforzata dalle energie che aveva assunto quella notte, spingeva per il contrario.
Immergendosi prese la decisione definitiva: infischiandosene dei rischi la notte successiva avrebbe agito.
Nuotò verso la riva e accarezzò il muso del cavallo che fino a quel momento aveva sorvegliato il suo bagno solitario.
“Ancora un po' di pazienza Falstaff – disse baciandolo tra le narici – poi saremo del tutto padroni del nostro destino”. Uscì dall'acqua e si avviò al di fuori di quel luogo irreale nuda com'era.
Camminando a piccoli passi sentiva già sulle labbra il sapore amaro della vendetta.



continua...

mercoledì 26 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Ottava


[...]

“Che c'è, non hai mai visto una donna nuda?” disse Lamiah, lasciandosi guardare compiaciuta.
Alfredo era lì immobile, con la bocca spalancata. Farfugliò qualcosa senza riuscire a comporre nessuna frase intellegibile, allora lei lo interruppe.
“Immagino di sì, però è molto che non ti capita, giusto?” chiese lei, sardonica.
“Non è quello...” in realtà era completamente estasiato, però fu abbastanza pronto da inventare un'obiezione plausibile. “La prima volta che ti ho visto eri... eri... completamente diversa... non sembravi nemmeno... nemmeno...”
“Nemmeno umana.” lei lo interruppe, trattenendo a stento la rabbia.
“No, no...” Alfredo cercò di rimediare, terrorizzato davanti a quegli occhi fiammeggianti, avvampatisi in pochi secondi, “non intendevo...”
“Invece intendevi. E avevi anche ragione. Ma non ti preoccupare, la mia rabbia non è rivolta a te, anzi, tu in qualche maniera mi hai aiutato”.
“Io? E come avrei potuto? Con quelle poche cose che ti ho portato forse?”
Lei rise, di gusto. Era incredibile come riuscisse a cambiare umore e atteggiamento repentinamente, come anche Penna–rossa e l'altro tipo, del resto. “Quelle aiutano, ma per me, nello stato in cui ero, serviva ben altro. E tu sei riuscito a darmelo”.
Alfredo non credeva a quello che sentiva. Davvero non poteva immaginare come avesse potuto aiutare quella ragazza della cui natura paranormale era sempre più convinto. Anzi, era sicuro che fino a quel momento lei e i suoi due amici non avessero fatto altro che aiutare lui, per qualche oscuro motivo che a lui era sempre sfuggito e su cui non aveva mai riflettuto.
“È stata la tua forza vitale a riportarmi al mio reale aspetto, e a ridarmi coscienza di me stessa”. Disse interrompendo il flusso dei pensieri di Alfredo, più che mai caotico a dire il vero. “Quando sei arrivato, l'altra notte – continuò – eri così carico di speranza, rabbia, amore, e la forza delle tue emozioni mi ha aiutato a compiere in poche ore un cammino che avrebbe richiesto molto tempo in più”.
“Ma... di quale cammino parli? I tuoi amici l'altra sera avevano detto che eri stata via... ma se eri qua, evidentemente eri già tornata... no?”
“Ero tornata sì, ma non del tutto. Il mio è stato un viaggio molto lungo.”
Alfredo non capiva più nulla. Era in un luogo da favola, davanti a una donna bellissima completamente nuda che gli diceva cose incomprensibili dopo essere sfuggito a una banda di arcieri che sembravano usciti da un fumetto fantasy e per di più aveva appena rivisto per la seconda volta la sua ragazza morta mesi prima.
“E non ero partita di mia volontà” concluse la ragazza, adesso cupa e triste.
“E allora perché....”
“Perché mi hanno obbligata, stupido!” sbottò lei “Il mio viaggio era una punizione!” e tacque.
Alfredo, imbarazzato dal suo silenzio, cercò di cambiare discorso.
“Però poi sono arrivato io... e in un modo che ancora non ho capito ti ho aiutato, giusto?”
“Come sarebbe a dire che non hai capito? La tua bella non ti ha detto niente?”
“No... non siamo stati molto assieme” respingendo un singhiozzo “Il tuo amico l'ha portata via quasi subito.”
“Quale amico?”. Quasi gridò lei, afferrandogli un braccio.
“Quello.. quello con la penna rossa in testa. È arrivato a un certo punto, mentre Gabriella aveva cominciato a piangere, e ha detto che eravamo stati insieme abbastanza... e mi ha detto che potrò rivedere Gabriella una sola volta ancora, per dirle addio...”
“Quel bastardo è sveglio, forse anche troppo, e forse sta capendo qualcosa.... d'altronde è abbastanza potente da sentire se i guardiani si muovono o meno...” parlava tra sé e sé, fissando un punto lontano sopra la spalla sinistra di Alfredo.
“Che cosa c'è da capire?”
“Per caso gli hai detto che ci eravamo già visti?” come se non lo avesse sentito.
“No ma...”
“Ma lui ha capito vero?”
“Sì... credo di sì” pensò che fosse meglio non dire che lui in realtà stava per rivelare il loro precedente incontro.
Lei sospirò. Poi mosse un passo verso di lui. Ora poteva sentire chiaramente la pressione dei suoi seni duri sul petto e il suo respiro sul collo. Lo baciò, ma non come lo aveva baciato l'altra volta. Fu un bacio, caldo, appassionato, che Alfredo non ricambiò ma gustò fino all'ultimo istante, assaporando il suo respiro e la sua lingua.
“Adesso devi andare, non puoi più stare qui”. Disse lei.
Alfredo ubbidì, ancora inebetito dal bacio.
“Quando... quando posso tornare?”
“Quando tornerai qui lo deciderò io. Dalla tua bella... puoi provare quando vuoi. Non dare ascoolto a quel mentecatto, gli piace dare ordini ma non conta nulla. Poi ti spiegherò come diventare più potente di lui. Ora vai”. Disse lei, indifferente, e si reimmerse nel lago.
Alfredo uscì e si avviò verso casa.
Non riusciva a pensare a nulla, l'unica cosa che poteva fare in quei momenti, era gustare le ultime gocce di quel sapore meraviglioso che ancora gli rimanevano in bocca.



continua...

lunedì 24 settembre 2007

Il parcheggio

Qualche sera fa, dopo una buona mezz'ora di giri a vuoto, sono andato a parcheggiare in un enorme parcheggio sotterraneo a pochi metri da casa mia di cui quasi nessuno conosce l'esistenza. Mi sono ritrovato da solo in un'immensa distesa di cemento, illuminata qua e là da qualche fredda luce al neon. E ho trovato la situazione decisamente inquietante...

Mario sbuffò fragorosamente, mentre per l’ennesima svoltava attorno l’edificio della Scuola Elementare, completando così l’ennesimo giro – il decimo? Forse anche di più – per le strade del quartiere.
Oltre che stanco cominciava a sentirsi anche piuttosto nervoso: non aveva percorso settecento chilometri per poi passare la notte a girare per il quartiere alla ricerca di un buco dove infilare la sua macchina.
All’improvviso, tra una station wagon e un SUV parcheggiate ‘a spina’ gli parve di scorgere un buco: qualche nottambulo che cominciava i suoi giri forse, o qualche amante clandestino di ritorno dal/la legittimo/a consorte.
Diede gas, in un istante fu lì. Ora una rapida manovra e finalmente sarebbe andato a dormire, e non era nemmeno troppo lontano da casa!
Sarebbe stato perfetto, se solo lì, tra quei due macchinoni non ci fosse stata la solita, odiosa Smart, visibile solo da pochi metri a causa dei due giganti ai suoi lati.
Trattenne una bestemmia e ripartì.
Solito giro: bar, pizzeria, libreria, prima a destra che poi la strada chiude.
Ma… all’improvviso, come un’oasi nel deserto, bella rotonda, bianca su fondo blu, una P di almeno mezzo metro, sotto, una freccia che indicava di andare dritto e il cartello 666 m.
666 metri? Cos’era? Uno scherzo della stanchezza? Ma no, il cartello era lì, indicava la direzione della vecchia chiesa sconsacrata, e in effetti qualcuno gli aveva parlato di un parcheggio sotterraneo proprio sotto la vecchia chiesa. Non ci andava mai nessuno, questo gli avevano detto, al bar o all’edicola, non ricordava. Però c’era, era enorme e pubblico. Dopo quasi tre quarti d’ora di giri valeva la pena di provare. Ma quell’indicazione? 666 metri? Mah, forse un operaio del comune appassionato d’horror e con un dubbio senso dell’umorismo.
Percorse quei 666 metri a passo d’uomo, magari trovava un parcheggio senza per forza dover scendere sotto la chiesa.
Da anni utilizzava solo la macchina per girare in città e gli era capitato un sacco di volte di mollarla sottoterra. Stavolta però si sentiva stranamente a disagio. Giravano strane voci su quella chiesa, sebbene si trovasse quasi in centro e in uno dei quartieri più popolati di Roma.
Arrivò all’imbocco della discesa che l’avrebbe portato al parcheggio senza trovare uno straccio di buco per mollare prima la sua macchina. All’apparenza era tutto normale, d’altronde non poteva certo aspettarsi un antro fiammeggiante pronto a inghiottire lui e il suo fedele maggiolone.
Si stupì di non aver mai notato prima quella rampa e quelle indicazioni. Ma d’altronde da quando era andato a vivere lì aveva sempre condotto una vita piuttosto frenetica, e quelle vie le batteva poco, giusto quando la ricerca di un posteggio notturno ce lo portava, e insomma, la sua distrazione era proverbiale.
Ingranò la prima e imboccò la rampa. Tutto normale, apparentemente. Dopo una discesa di una decina di metri circa, sulla destra di apriva un enorme parcheggio di cemento. Quadrato, cinquanta metri almeno per lato, percorso in lungo e in largo da file di colonne anch’esse di cemento. Le colonne formavano dei quadrati tra cui erano disegnati i posti auto. In ogni quadrato ce ne entravano comodamente due, illuminati da lampade al neon fredde ma efficaci.
Incredibile. Un parcheggio così grosso completamente vuoto. Quando ogni notte gli abitanti della zona erano costretti a lunghissimi e spesso infruttuosi giri.
Dalla parte opposta al punto da cui era entrato gli parse di vedere un’altra uscita. Si diresse lì, spedito, in quanto uscendo da lì sarebbe stato più vicino a casa, e adesso voleva solo arrivare in camera sua il più presto possibile.
Parcheggiò contro il muro, scese e si diresse verso l’uscita. Imboccò un piccolo corridoio a ‘elle’ al termine del quale sarebbe uscito, o almeno così credeva.
Stavolta la bestemmia fu più veloce del suo autocontrollo: l’uscita era chiusa con un pesante cancello di metallo. Pensò di risalire in macchina e parcheggiare dalla parte opposta, vicino l’ingresso da cui era entrato. Poi cambiò idea. Si trattava di una cinquantina di metri circa, meno di un minuto di camminata, e dopo ore e ore al volante sentiva il bisogno di sgranchirsi le gambe.
Pochi passi e le luci al neon presero a tremolare, come per un calo di tensione.
Il tremolìo durò pochi secondi, ma quando cessò del tutto alcune delle luci si erano spente. Poco male, pensò Mario, di luce ce n’era ancora a sufficienza, nonostante molti punti del parcheggio fossero rimasti completamente al buio. Eppure cominciava a sentire una strana inquietudine.
Mario si girò per tornare verso la macchina. Ormai però era più o meno a metà strada, a conti fatti ci avrebbe messo di più ad arrivare alla macchina, aprire, salire, mettere in moto e arrivare dalla parte opposta. E poi il suo fondoschiena gli mandò una dolorosa richiesta di proseguire a piedi.
Sospirò e riprese a camminare.
Due passi, forse tre, poi sentì un rumore alle sue spalle.
Si girò.
Nessuno, eccetto la sua macchina, in fondo.
“IHIHIH”
Una risata!
L’aveva sentita, ma intorno a lui non vedeva nessuno. Qualche ragazzino forse, magari nascosto al buio.
Non aveva nessuna voglia di scherzare, ma neanche di farsi prendere in giro da un deficiente. Così riprese a camminare senza aumentare l’andatura. Cioè, un po’ allungò il passo, ma non troppo per non farsi scoprire.
L’uscita adesso era molto più vicina, dieci, quindici metri al massimo.
“OHOHOH”
Un’altra risata, diversa da quella di prima!
Si girò di nuovo, non vide nessuno, ma per forza doveva esserci qualcuno.
Valutò qualche secondo l’ipotesi di andare nel buio a mollare un paio di sberle ai simpaticoni che da lì si prendevano gioco di lui. In fondo era alto più di un metro e novanta, aveva sempre fatto sport e non aveva certo paura di uno o due cretini nascosti in un parcheggio.
Mentre valutava la possibilità, un nuovo tremolìo delle luci. Come prima durò pochi istanti, ma diversamente da prima spense un bel po’ di luci. Praticamente restarono accese solo quella sopra la sua macchina e quella davanti l’uscita. Il resto del parcheggio ora era immerso nel buio.
Sospirò con rabbia e si mosse verso la luce. Erano solo pochi metri, a breve sarebbe stato fuori e non sarebbe mai più tornato a parcheggiare lì sotto.
Un passo nel buio più totale e urtò qualcosa. Poi un rumore sordo gli disse che quel qualcosa che aveva urtato era caduto a terra.
Qualcosa o qualcuno?
Avrebbe giurato infatti di aver urtato una persone.
Stavolta cominciava davvero ad avere paura.
Tirò fuori l’accendino dalla tasca e si accese una sigaretta.
Quei pochi attimi di luce dalla fiamma del suo zippo bastarono a fargli notare qualcosa.
Riaccese e ciò che vide gli fece spezzare la sigaretta tra i denti per la paura.
Era circondato da strani esseri, a non più di tre metri da lui. Avanzavano lenti, incerti su gambe scheletriche coperte da brandelli di stoffa. I loro volti cadevano a pezzi mentre camminavano, a passi di pochi centimetri alla volta, le mani ossute tese in avanti.
Si girò per correre alla macchina e si trovò davanti due orbite vuote, gli occhi di quell’essere pendevano sulle guance scarnificate appesi ancora per qualche filamento vischioso. Al posto della bocca un’apertura nera priva di labbra da cui faceva capolino un grosso ratto nero.
Mario gridò di terrore, spinse via gli zombie più vicini a lui e si lanciò verso l’uscita.
Un attimo prima di mettere il piede fuori si voltò per vedere se lo stessero seguendo.
Neanche il tempo di mettere a fuoco ciò che accadeva dietro di lui.
Cadde all’indietro con un dolore lancinante alla testa.
Là dove prima c’era l’uscita adesso c’era un muro di cemento contro cui aveva battuto.
Era impossibile!
L’uscita era lì un attimo prima, ora c’era solo un muro ruvido e freddo!
E gli zombie ormai erano dietro di lui.
“Mario! Corri! Vieni qui!”
Guardò verso quella voce.
All’angolo opposto del parcheggio, in mezzo a un cerchio di candele accese, una ragazza lo chiamava con grandi gesti.
“Fai presto! Loro non possono entrare nel cerchio sacro! Sbrigati!”.
Mollò un pugno a uno zombie che ormai era a meno di mezzo metro di lui. Lo colpì in pieno viso e sentì perfettamente la testa staccarsi dal collo, cadendo a terra con un rumore viscido.
Prese a correre buttando giù a spallate tutti gli zombie che gli capitavano a tiro. Per sua fortuna erano lenti e deboli, e riuscì a superarli senza troppa fatica.
Corse come non aveva mai corso in vita sua, dritto verso quel cerchio di candele davanti a lui.
Per un attimo, mentre correva, pensò che anche la comparsa di quella ragazza era ben strana, forse era alleata degli zombie e lui ora stava solo per cacciarsi in una trappola ancor più grossa.
Si fermò a pochi centimetri dalle candele.
La ragazza tese le mani verso di lui.
“Presto Mario… entra nel mio cerchio… presto… loro qui non possono entrare…”
La sua voce era suadente, ma aveva qualcosa di strano. Era lontana, come se provenisse dalle viscere della terra.
Decisamente Mario non si fidava. Poi una mano di uno zombie sulla spalla gli fece passare tutti i dubbi, e con un balzo entrò nel cerchio.
Si voltò. Come aveva detto la ragazza, gli zombie non lo seguirono. Rimasero pochi centimetri al di là delle candele tendendo le braccia verso di lui ed emettendo terribili versi gutturali.
Mario sospirò, e guardò la sua salvatrice. Era bella: con lunghi riccioli rossi che le scendevano fino alla vita e occhi verdi come il mare, sembrava una fata delle favole.
Guardò Mario sorridendo. “Non ti preoccupare, io sono qui apposta per salvare dagli zombie quelli come te, che non credono alle leggende della vecchia chiesa. Presto farà giorno, e tu potrai uscire di qui. Ora abbracciami”. Così dicendo si avvicinò a Mario, tendendo le braccia verso di lui.
Mario la guardò rapito. Era davvero bella, e poi quegli occhi… così verdi… così profondi… per lui adesso al mondo c’erano solo quegli occhi. Si lasciò abbracciare, inalò l’odore pulito di quei capelli morbidi, assecondò le forme morbide di quel corpo che si adagiava al suo.
Poi all’improvviso, il dolore.
Tentò di gridare, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo e uno spruzzo di sangue.
Allontanò da sé la ragazza portandosi le mani al collo cercando di bloccare il fiume di sangue che usciva da dove lei lo aveva morso.
Mentre la vista si appannava la vide mutare… il volto si allungò in un muso da predatrice, i capelli la avvolsero tutta come una pelliccia di belva, e dalla bocca ghignante si intravedevano zanne come non Mario non ne aveva mai viste.
“Povero Mario – ringhiò – almeno adesso avrai una morte rapida!”
Lo afferrò per i capelli quasi strappandogli la testa. La ferita alla gola si allargò e la bestia ci tuffò il muso succhiando rumorosamente il sangue.
Andò avanti per pochi minuti emettendo versi orribili, mentre gli zombie stavano ancora tutti all’esterno del cerchio. In silenzio però, come in attesa.
Quando ebbe finito, la belva afferrò il corpo di Mario per una gamba, lo fece roteare in aria e poi lo lanciò nel buio, ben lontano da dove si trovavano gli zombie.
Questi si affrettarono, per quanto gli permettevano le loro misere condizioni, e la belva si stese nel suo cerchio di candele, mentre piano piano ridiventava una bellissima ragazza.
Dopo un po’ le si avvicinò uno zombie, tenendo tra le mani un pezzo di carne tondo e sodo, che era stato una natica di Mario.
“Ehi tu – disse – potevi lasciarci un po’ di sangue! Adesso questo è diventato duro come una vecchia ciabatta!”
E poi addentò famelico il pezzo di carne che aveva tra le mani.

martedì 18 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Settima




[...]


Gabriella era lì, in piedi, vestita di bianco, un lungo abito che le arrivava fino ai piedi nudi. Vivida e netta, consistente - come era stata per pochi attimi prima che gliela portassero via per la seconda volta, un mese fa - diligentemente ferma a pochi metri dall'inizio di quel bosco che per lei era tabù, almeno stando a quanto gli aveva detto Penna-rossa.
“Ciao piccolo” ripetè, come faceva sempre quando lui era lento a svegliarsi.
“Ciao piccola” rispose lui, muovendosi per raggiungerla. Stavolta soffocò in tempo l'istinto di abbracciarla, fermandosi a non più di due passi da lei.
“Sei... sei bellissima” disse commosso.
“Tu di più” rispose lei sorridendo, resuscitando un gioco di una vita fa.
“Come... come stai?” disse lui, titubante e incerto tra le mille domande che avrebbe voluto porle.
“In pace” fu la risposta.
Alfredo rimase interdetto.
“Cosa vuol dire? Stai... stai bene?”
Lei rise prima di rispondere “Sì, sto bene”
“Perché ridi?” si sentiva veramente mortificato.
“Perché mi sembra una domanda così strana... cioè – prese a giocare con i capelli che le scendevano sulle spalle, come era sempre stata solita fare – sono morta... come dovrei stare?”
“Ma mi hai appena detto che stai bene!” rispose Alfredo, d'istinto.
“Sto bene... sì, se fossi viva direi che sto bene... ecco... ma ora... è diverso...” continuava a tormentare i suoi splendidi capelli biondi. In un'altra vita sarebbe stato sintomo di una certa inquietudine.
“In che senso è diverso?”Alfredo maledisse la sua innata curiosità: sapeva per esperienza che il tempo a loro disposizione era limitato e che avrebbe dovuto sfruttarlo al meglio, anziché perdersi in stupide disquisizioni.
Anziché rispondere, magari piccata come avrebbe fatto
in vita se incalzata con una simile insistenza, lei scoppiò in lacrime. Lacrime dure, piene, pesanti, lacrimoni veri e propri. Scavavano solchi liquidi sul suo volto e, soprattutto, nel cuore di Alfredo.
Spiazzato da quella reazione, lui provò a rimediare: “Ehi... non piangere piccola... siamo insieme... conta solo questo...”
“Qui ti sbagli di grosso.”
La frase di per sé era innocua. La voce però era di Penna-rossa.
Alfredo stentò a riconoscerlo:
l'aveva conosciuto seminudo e pelato, ora se lo ritrovava davanti vestito di tutto punto. Una giacca lunga, di velluto, con grossi bottoni che sembrava provenire direttamente dal '700, e un paio di pantaloni militari con anfibi, che facevano molto soldato USA in Vietnam. Il viso incorniciato da lunghi capelli neri che arrivavano a lambire le spalle. Non fosse stato per la voce, appunto, e per la solita penna rossa stavolta infilata tra i lunghi capelli, Alfredo non l'avrebbe mai riconosciuto.
“Cosa dici? Non ho fatto niente che tu mi abbia vietato”. Gridò Alfredo, in preda alla rabbia più nera.
“Qua le regole le faccio io – rispose Penna-rossa, gelido – e dico che per oggi vi siete visti abbastanza”.
Alfredo si sentì morire. “Ma che dici! È appena arrivata, stavamo solo parlando... dacci ancora un po' di tempo...”
“Hai ragione. Lei è appena arrivata, e voi state solo parlando. Ma io credo che sia meglio se lei ora torna da dove è venuta”. Schioccò le dita e Gabriella sparì.
Alfredo scoppiò in lacrime. Tutta la tensione di quelle ultime ore esplose violentemente in singhiozzi profondi, accompagnati da grosse lacrime che gli bagnavano il viso.
“Perché piangi? In fin dei conti hai appena rivisto la tua amata Gabriella. Dovresti considerarti fortunato”.
Alfredo lo guardò, tra le lacrime riusciva a vedere solo un contorno sfocato. “Sì ma... è durato troppo poco... potevi aspettare ancora un po'...”
Penna-rossa per tutta risposta gli diede una sberla. Alfredo rotolò su se stesso andando a sbattere contro un albero.
“Non permetterti mai di dirmi cosa devo o non devo fare”. Ringhiò il tipo.
“Ok, ok... non lo farò di più... però allora... dimmi tu come devo fare... se voglio stare con lei più a lungo...”
“Non dipende da te. Decidiamo io e i miei amici. Tu puoi solo venire qui e farci contenti, portando le cose che ti chiediamo. A proposito, cos'hai con te?”
Alfredo prontamente estrasse un pacco di cd che aveva portato per lo strano amico di Penna-rosa e della ragazza: Led Zeppelin, Deep Purple e naturalmente Lynyrd Skynyrd. Pensava potessero bastare.
“Ti avevo chiesto dell'altro, ricordi?” disse il tipo, dopo aver guardato i cd.
“Sì mi ricordo ma io ho già...”
“Già cosa?” Di nuovo lo sguardo infernale che lo aveva inchiodato un mese prima.
“Ho già... ho già....”
“Hai rivisto
Lamiah?!?” una frase a metà tra un'affermazione e una domanda.
“No... cioè... sì... ma non volevo... in realtà...”
“Tu non ti rendi conto di quello che hai fatto”, la voce ora era bassa, quasi un brontolio. Ma emanava vibrazioni così negative da far tremare tutti gli alberi che Alfredo riusciva a vedere.
“No... io non pensavo di fare nulla di male... però...” mentre parlava vide Penna-rossa tirar fuori la sua pipa, e decise di provare il tutto per tutto, anche se sul momento quella che aveva appena avuto gli parve un'idea di una stupidità inaudita.
“Ho queste per te” disse frettolosamente, porgendogli le sigarette che aveva con sé, un pacchetto quasi nuovo di Gauloises.
Penna-rossa spalancò gli occhi: “Tabacco francese! Dammelo!”
Alfredo ubbidì. Lo vide accendersi una sigaretta famelico e consumarla in pochi secondi per poi prenderne un'altra.
“Posso portartene ancora”, disse. Penna-rossa lo guardò per qualche istante, la sigaretta irrealmente ferma al centro della sua bocca. Quello strano essere stava riflettendo. Alfredo pensò che stesse decidendo cosa chiedergli per le sue prossime visite.
“No.” rispose gelido, la sigaretta attaccata al labbro inferiore. “Tu qui non devi venirci più”.
Le gambe di Alfredo cedettero, facendolo cadere di schianto sulle ginocchia. “Cosa... cosa stai dicendo? Io ho fatto sempre come mi avevi detto tu... perché?”
Penna-rossa sospirò, consumando mezza sigaretta in un istante. “Perché la cosa sta diventando pericolosa Alfredo” disse tranquillo, con tono quasi paterno “e tu non hai idea delle forze che si potrebbero risvegliare”.
“Non m'importa nulla! Io voglio rivedere Gabriella!” gridò Alfredo balzando in piedi.
Penna-rossa rimase impassibile, per nulla spaventato da quello scatto. “Va bene, la vedrai ancora una volta, ma sarà l'ultima, purtroppo. Però non venire più qui, per nessun motivo” le ultime parole erano state un ringhio indefinibile, accompagnate dallo sguardo rosso fuoco che Alfredo conosceva bene.
“Ma allora... come farò a...”
“Verrò ad avvisarti io”.
“Quando?”
“Domani, tra un mese, tra un anno, tra cent'anni. Non lo so, sappi solo che verrò, Erlik non manca mai alla parola data”. E sparì in uno sbuffo di fumo.
Alfredo resto lì a fissare il vuoto per un tempo indefinibile, finché, provato da tutte quelle emozioni, decise di avviarsi verso casa: aveva bisogno di riflettere, in cuor suo non poteva accettare l'idea di perdere Gabriella un'altra volta, però prima di prendere una qualsiasi decisione doveva dormire, mangiare, riposarsi.
Si avviò verso casa, meditando se fosse il caso di tornare lì non appena fosse calato il buio, quando sentì uno strano rumore, e vide uno stallone con una stella bianca sul muso venirgli incontro.
Non aveva dubbi, era la stessa bestia che cavalcava la ragazza, che evidentemente si chiamava Lamiah, poco prima, quando lo aveva salvato da morte quasi sicura.
Il cavallo lo raggiunse e si chinò davanti a lui, guardandolo fisso con i suoi immensi occhi neri. Alfredo non sapeva come né perché, ma quell'animale lo stava invitando a saltargli in groppa.
Dopo un attimo di esitazione decise di ubbidirgli.
Tempo un istante e la bestia si lanciò al galoppo in mezzo agli alberi, e a lui non restò che aggrapparsi alla criniera e pregare per non scatafasciarsi al suolo.
Il galoppo durò pochi minuti. Giusto il tempo di imboccare una grotta di cui Alfredo ignorava l'esistenza e di sbucare davanti un lago sotterraneo, illuminato da una flebile luce azzurra.
In acqua, bellissima e completamente nuda, Lamiah.
Alfredo scese dal cavallo e rimase immobile a guardare quel corpo bellissimo e flessuoso che muoveva verso di lui.


continua...