mercoledì 31 ottobre 2007

La bambina




La bambina era lì, ai piedi del letto. Era una bella bambina, con lunghi riccioli rossi che le scendevano sulle spalle, occhi azzurri e il viso pieno di lentiggini. Non fosse stato per quei lacrimoni che le rigavano il faccino lui l'avrebbe considerata una piacevole apparizione notturna. Invece quello sguardo gli pesava in petto come un macigno.
“Chissenefrega – pensò – è soltanto un sogno, solo un sogno e nulla di più”.
Ma la bambina restava lì, immobile, e lui non riusciva a chiudere gli occhi né tantomeno a distogliere lo sguardo.
Stava per darsi un pizzicotto, un morso sulla lingua, una capocciata al muro, qualsiasi cosa per svegliarsi, quando la bimba si mosse.
Alzò la mano, puntando l'indice contro di lui, e il suo cranio cominciò a deformarsi: la tempia destra si spostò repentina verso il basso mentre l'occhio fuoriusciva lentamente dall'orbita per cadere a terra con un disgustoso rumore liquido, e dove prima c'erano solo riccioli rossi si apriva uno squarcio rosso.
Lui rimase senza fiato, la bocca era spalancata ma i polmoni non pompavano abbastanza aria per gridare.
Poi, così come era apparsa, la bambina sparì, i suoi polmoni tornarono a regime e quello che doveva essere un grido si trasformò in un rumoroso sospiro.
Accese la luce, tutto era in ordine. Nessuna traccia di bambine né di teste implose o occhi schizzati dalle orbite.
“Un brutto sogno... già... sono stanco... nervoso...” pensò di ripiombare nel sonno.
La mattina successiva il sole e il traffico di Roma contribuirono a far sparire del tutto gli ultimi residui di una più che comprensibile inquietudine.
Continuava a pensare a quella bambina, questo sì, ma in maniera fredda e razionale.
“La stanchezza, la paura per questo dannato serial killer, sì... deve essere per questo che ho fatto un sogno così strambo... ma perché poi una bambina? Mah... poverina poi... la stessa fine orribile di tutta quella gente... e del povero Mattia...”
Mattia, il suo migliore amico, vittima con altre 48 persone del “serial killer delle teste sfondate”, come lo aveva ribattezzato un giornalista privo di fantasia ma con un notevole senso dell'horror a colmare il gap. Un pazzo che ammazzava la gente con un ciocco di legno di quercia, come aveva appurato la polizia. Un colpo solo, secco, sulla tempia destra, a sfondare il cranio e via, nel nulla da dove era venuto, visto che non lasciava mai nessuna traccia. Aveva ucciso per strada, nelle camere da letto, in ascensore, nei boschi senza che nulla - un'impronta, un capello, uno schizzo di sangue o saliva - di non appartenente alle vittime fosse mai rinvenuto. In pratica, a Roma e dintorni, vivevano tutti nel terrore, visto che le vittime non avevano niente in comune tra loro.
Pensieri foschi, mentre il tram traballava non troppo spedito verso la stazione Termini.
All'improvviso, come un flash, di nuovo la bambina.
Sorridente, le mani dietro la schiena, la testa inclinata da un lato, i piedini incrociati.
Indiscutibilmente lei, sul giornale del tipo alla sua destra.
Si sporse per leggere meglio, era una pagina di necrologi.
“Ahò che cazzo voi! - lo apostrofò il compagno di viaggio – Anvedi questo, guarda che 'sto giornale lo danno aggratis, pijatelo pure te si lo voi legge, sennò vattene affan...”
Non sentì la prevedibile fine della frase. Il tram si era fermato vicino a una fermata della metro, lì avrebbe trovato il giornale che quel tipo aveva in mano.
Si fiondò per le scale urtando un bel po' di persone, corse fino alla rastrelliera ma... finito. Il giornale non c'era più. D'altronde a quell'ora di lì erano già passate decine di migliaia di persone.
“Pazienza – pensò – di farmi tutta la linea A per rimediare una copia non se ne parla, però oggi niente università. Vado da Valentina.”
Valentina, la sua ragazza. Casualmente abitava a poche centinaia di metri dalla metropolitana. L'aveva conosciuta insieme a Mattia, proprio un anno prima, in treno. Bella ragazza, allegra, disponibile, aveva filato un po' con tutti e due, poi lei aveva scelto lui, e Mattia non se l'era presa più di tanto.
Arrivò sotto al suo portone, una folla impediva l'ingresso, accalcata attorno a un cordone di carabinieri. Si fece largo a spintoni.
“Che succede qui! Fatemi passare!” gridò.
“Chi è lei? Vive qui?” gli chiese il carabiniere più vicino.
“No, ci abita la mia ragazza che succede?”
Il carabiniere abbassò lo sguardo.
Balbettò qualcosa, poi arrivò la barella.
Steso sulla lettiga, un corpo coperto da un lenzuolo bianco. I capelli biondi che cascavano fuori gli spiegarono tutto, così come la forma innaturalmente deformata della testa che si intuiva sotto il lenzuolo.
Un conato di vomito gli risalì l'esofago. Corse via, entrò nel primo bar fiondandosi in bagno. Vomitò, gli sembrò di riprendersi, un poco.
Poi dei singhiozzi, alle sue spalle.
Si girò.
Ancora la bambina.
Era nell'angolo vicino la porta, le mani lungo i fianchi e il corpicino scosso dai singhiozzi. Il cranio orrendamente deformato e un'orbita vuota, grosse lacrime dall'unico occhio.
“Non voglio... non voglio... io non sono cattiva...”
Lui deglutì, cercando qualcosa da dire o da fare, ma riusciva solo a stare immobile, senza dire nulla.
“Ho disobbedito... ma non l'ho fatto apposta... io non sono cattiva...” continuava a ripetere tra i singhiozzi.
“Ma... che cosa stai dicendo? Io non ti conosco, non ti capisco...”
“Io non sono cattiva...” come un mantra, senza curarsi delle sue parole.
“E-ehm” alle sue spalle.
Una donna dal volto ossuto, rinsecchito, la pelle giallastra tirata sugli zigomi e la mandibola, le labbra consunte, due occhi troppo grandi per quel volto ridotto ai minimi termini. Il corpo spigoloso avvolto da un mantello nero.
“E tu chi sei? Che ci fai qui?” le chiese lui, confuso e terrorizzato. La bimba alle sue spalle continuava a piangere e mormorare.
“Povera piccola, ha ragione, lei non ha nessuna colpa – continuò la donna, senza rispondere alla sua domanda – anzi, dovresti anche esserle grato, in fondo ti ha regalato un anno esatto di vita”.
“Ma cosa cazzo stai dicendo? E chi cazzo siete voi due? Io esco da qui!” si avvicinò alla pporta badando bene di non toccare la bambina. Lei lo guardò, e scosse la testa.
“Non puoi, non puoi... mi dispiace...”
Lui non ci badò più di tanto, allungò la mano verso la maniglia della porta, sentendo solo legno liscio. Guardò in basso, la maniglia non c'era più. La porta era un unico rettangolo di legno plastificato bianco; senza serratura, maniglie, cardini sembrava un tutt'uno con le mura del bagno in cui si trovava.
“Un anno esatto fa, stava giocando sul bordo di una grossa strada, disobbedendo ai genitori – i singhiozzi della bambina aumentarono, mentre la donna continuava a parlare – la sua palla finì sull'asfalto, e lei, senza pensarci due volte, scavalcò il guard rail per andare a prenderla”.
La bambina adesso gridava a perdifiato, lui avrebbe voluto abbracciarla, consolarla, ma quel buco in testa e quell'orbita vuota erano troppo. “Ma come è possibile che da fuori non si accorgano di niente? - pensò – e io come faccio a venir fuori di qui?”
“Arrivò una macchina, a tutta velocità, la prese in pieno e la mandò a sbattere contro una quercia che stava a bordo strada, il risultato lo puoi vedere da te”
Le urla della bimba ora erano insopportabili, si fece forza e le prese una manina, fredda, come un ghiacciolo, però i singhiozzi rallentarono, un po' almeno.
“L'uomo che la investì perse il controllo della macchina e uscì di strada, morto anche lui”.
“Sì ma io cosa c'entro?” chiese per la seconda volta.
“Quell'uomo era un terrorista, nel bagagliaio aveva una borsa piena di esplosivo. Avrebbe preso un treno e si sarebbe fatto saltare in aria in mezzo ai passeggeri. Sarebbe morto con altri 50 passeggeri. Su quel treno viaggiavi anche tu, con il tuo amico e la tua futura fidanzata.”
“Quindi...”
“Sì. Dovevate morire, e io sono qui per rimediare” la donna lo interruppe bruscamente. Poi alzò un braccio puntando un dito vero di lui. La bambina riprese a gridare.
Lui sentì dapprima un fortissimo dolore sulla tempia destra, poi qualcosa cominciò a premere sulla base del collo. Il dolore divenne insopportabile mentre sentiva il suo occhio destro scivolare a terra tirandosi dietro un fiotto di sangue.
Il pavimento impiastricciato del suo sangue fu l'ultima cosa che vide.
Poi, più nulla.

giovedì 25 ottobre 2007

Ghost Hunting!

I ghost hunters non sono altro che moderni cacciatori di fantasmi. Molto lontani dai ghostbusters del cinema, si recano in luoghi che hanno fama di essere infestati con l'unico scopo di osservare fenomeni paranormali, spesso con l'aiuto di mezzi tecnologici come ad esempio telecamere o rilevatori di temperatura.


Hai mai fatto ghost hunting?”.
Glielo chiese così, tra un sorso di vino e un tiro di sigaretta, giocherellando con i suoi lunghi capelli neri.
Lui d’altronde non si scompose più di tanto, anzi. Da circa due ore parlavano a ruota libera tra i fumi del vino e delle dozzine di sigarette fumate, e quella, tra due appassionati di horror ed esoterismo come avevano appena scoperto di essere, era solo una domanda come un’altra, che lui peraltro le aveva chissà quanto involontariamente imboccato, chiedendole, pochi istanti prima “ma tu ai fantasmi ci credi per davvero o ti piace solo vederli al cinema?”.
“Io ci credo per davvero” aveva risposto lei sicura, e da lì, erano arrivati al ghost hunting.
“No, non l’ho mai fatto ma mi piacerebbe provare, prima o poi, ma finora non ho trovato nessuno disposto a passare una notte in qualche posto abbandonato da dio e dagli uomini in attesa di qualche lenzuolo svolazzante”. Lo disse noncurante e strafottente il giusto, non con un tono da ‘uomo che non deve chiedere mai’ ma abbastanza vicino, questo sì. In realtà fino a quel momento non era mai andato a caccia di fantasmi semplicemente perché aveva una paura fottuta, forse perché era cresciuto ascoltando ‘ghost stories’ dalle persone che amava di più, e che per di più asserivano di averle vissute in prima persona o quasi.
Tuttavia i riflessi rallentati dal vino e dall’ora che si faceva sempre più tarda lo avevano portato a quella risposta banale e stereotipata, ‘proprio quello che lei voleva dicessi’ pensò lui.
“Ma dai! È fantastico! Neanch’io sono mai riuscita a trovare qualcuno disposto a passare una notte intera con me in qualche casa abbandonata!”.
La velata allusione che colse maliziosamente in questa risposta non servì molto a tirargli su il morale, anzi. Intuì subito dove lei voleva arrivare e rabbrividì.
“Perché una sera di queste non andiamo da qualche parte? Qui intorno è pieno di luoghi infestati!”
“Ehr… sì… mi pare una buona idea! Però il posto lo decido io, ne ho giusto uno che ci viene comodo comodo”.
“Ah sì? E di che posto si tratta?”.
“È il vecchio palazzo di famiglia, vecchio di secoli in cui adesso abita solo un vecchio zio di mio papà. Lì pare che di fantasmi ce ne siano a dozzine”.
“Maddai! Del tipo? Raccontami qualche storia!”
“Bè… ad esempio… si dice che di notte per le scale si sentano dei passi… passi di donna sai, di scarpe col tacco insomma…oppure… in alcune stanze della casa non si è mai riusciti a dormire a causa di.. rumori.. sospiri… senso di soffocamento, in una in particolare… si dice che a un certo punto sentivi qualcuno che ti saltava sul letto…”. Era indeciso se raccontare anche la storia che girava più spesso s quelle vecchie mura, e di cui un paio di vecchie zie erano le ultime testimoni dirette. In famiglia se ne parlava poco e sempre malvolentieri, ed era un argomento considerato tabù quando c’erano estranei nei paraggi. Per fortuna l’entusiasmo della sua amica lo tolse dall’imbarazzo.
“Sembra fichissimo! Quando si va?”.
“Non saprei… così… all’improvviso…”
“Lunedì prossimo secondo me va bene”. Lei tagliò a corto facendogli un occhiolino. A quel punto lui, ripassate velocissimamente le possibili scuse, potè solo acconsentire.
“Sì va bene, lunedì prossimo va bene”.
Chiaramente mettere al corrente la famiglia di quel proposito era fuori discussione. Ma questo comunque non sarebbe stato un grosso problema, lui aveva le chiavi del portone e conosceva un paio di modi per entrare anche attraverso il cortile, forzando vecchie finestre o infilandosi in qualche cunicolo. In quanto al vecchio zio poi, quello che ancora viveva lì, in quel periodo era fuori per un lungo viaggio intorno al mondo. Insomma, nessuno avrebbe mai saputo nulla.
Il lunedì successivo lui trascorse la giornata in attesa febbrile di quella notte. La paura era sparita quasi del tutto, soppiantata da un’eccitazione febbrile all’idea di indagare finalmente e magari assistere a quei fenomeni di cui aveva sempre sentito parlare, ma che a casa sua erano vissuti come una cosa di cui vergognarsi. E poi, diciamolo pure, l’idea di passare una notte intera in stanze buia con lei gli garbava davvero. Gli era piaciuta da subito, e aveva anche impressione che la cosa fosse reciproca. Però un po’ per timidezza, un po’ per endemica inettitudine nei rapporti con l’altro sesso, non aveva mai fatto nulla per andare oltre una sporadica frequentazione condita da vino e sigarette ad accompagnare lunghe chiacchierate sul più e sul meno.
Si ritrovarono puntuali a poche centinaia di metri dal palazzotto di famiglia, un solido quadrilatero di tre piani, appoggiato a una vecchia torre di avvistamento, l’ultima rimasta in piedi tra tutte quelle attorno cui si sviluppavano le mura cittadine, anche questa compresa tra le proprietà di famiglia. Lui decise di passare proprio attraverso la torretta per entrare nel palazzo, non perché fosse l’unica via, ma perché sicuramente era la più suggestiva. Da lì, attraverso un minuscolo cunicolo che anche in famiglia conoscevano in pochissimi, si arrivava dritti dritti nel salone principale del primo piano, quello che per secoli era stato il salone delle feste, e che ora era pressoché abbandonato, usato solo in rare occasioni. Passaggi come quello si trovavano in quasi tutte le stanze del palazzo, retaggio di un’epoca in cui pirati e predoni imperversavano e bisognava ingegnarsi per salvare la pelle. Alcuni erano noti ma molti altri no, chiusi definitivamente da vari lavori di ristrutturazione oppure semplicemente dimenticati.
“Però, che lusso!”, commentò lei. Alla luce della luna che entrava dalle finestre si scorgeva una sala enorme, piena di specchi e dominata da un immenso camino in cui era possibile entrare in piedi, e che secoli prima aveva riscaldato le innumerevoli feste che lì si tenevano. Adesso un pesante tavolo di legno in mezzo alla sala faceva intendere che l'uso di quello spazio era decisamente diverso. Qualche cena tra notabili e poco altro, anche per le feste comandate la famiglia usava accomodarsi in un salone del piano superiore.
“Chissà quante feste qui...” continuò lei, camminando tra i mobili del '700.
“In verità non lo usiamo quasi mai, solo quando è proprio indispensabile... sai com'è... anche qui succedono cose strane...” rispose lui.
“Ma davvero? E non mi dici niente? Racconta dai!”, lei lo interruppe con entusiasmo.
“L'altra volta non ne ho avuto il tempo... e poi è una cosa che non raccontiamo molto in giro...”
“E dai! Non farti pregare, d'altronde m'hai portato qui apposta per vedere i fantasmi... o no?” disse lei, e lui lesse in quel 'o no' e in quello sguardo languido una neanche troppo velata allusione. Tuttavia si accomodò sul divano come se niente fosse, e cominciò a raccontare.
“In passato qui si tenevano delle feste bellissime. Venivano nobili da tutte le città vicine, alcuni addirittura facevano viaggi di ore ed ore pur di essere presenti. Ogni occasione era buona per una festa, e si dice che molte importanti decisioni politiche venissero prese nei salottini del piano di sopra, mentre qui si gozzovigliava”.
“Addirittura! E cosa si faceva in queste feste?” disse lei, tenendo tra le labbra socchiuse due dita.
“Mah... sai... ufficialmente si ballava... ma si dice anche che girasse roba... assenzio, coca, oppio... e poi che insomma, spesso e volentieri si finiva ammucchiati... non so se mi spiego...”
“Sì che ti spieghi...” disse lei accucciandosi sulla sua spalla. Mise mano alla borsetta e tirò fuori una canna già bell'e rollata. “A proposito di roba... ti va?”.
“Bè... perché no? La notte è lunga...”
“Sì... molto lunga...” disse lei accendendo il bombone, tondo e cicciotto, gonfio di marijuana.
“E poi… la storia delle feste è andata avanti molto a lungo, credo addirittura per un secolo, forse più” continuò la storia, prendendo tra le dita la canna che nel frattempo lei aveva acceso. “fino a quando, ottant’anni fa circa, non successe un dramma”.
“Un dramma? In una festa del genere? E cosa mai poteva succedere? Qualcuno andò in coma etilico? O in overdose?”, disse lei riprendendosi lo spino. Fumare le metteva sempre allegria.
“Era la festa per il ‘debutto in società’ di tale Annina, “ lui continuò imperterrito, ignorando del tutto la battuta. “La zia di mia nonna o qualcosa del genere. A un certo punto, qualcuno lanciò l’idea di giocare a nascondersi nelle stanze dietro questo salone. Passarono ore, come puoi immaginare, probabilmente qualcuno lo prese come pretesto per appartarsi”.
“Eh-eh” lei rise, ripassandogli la canna.
“Fatto sta che molte ore dopo si accorsero che Annina non c’era più. Tutti gli invitati che erano ancora in casa, o almeno quelli che ancora si reggevano in piedi, cominciarono la ricerca, guardarono dappertutto, nelle cantine, nelle soffitte, in tutti i passaggi segreti di cui all’epoca si era a conoscenza, anzi, quella notte, durante la ricerca, ne scoprirono addirittura di nuovi, di cui si ignorava l’esistenza”.
Fece una pausa per tirare due lunghe boccate.
“E… e poi… la ritrovarono?” glielo chiese con voce tremante. La storia drammatica, il buio, il freddo, le stavano facendo passare il buon umore.
“La ritrovò una domestica, la mattina dopo. Si era chiusa in un baule che si apriva solo dall’esterno, ed era morta soffocata”.
“Ma… ma… è una storia orribile! Perché me l’hai raccontata?”. Adesso con le dita tomentava i suoi lunghi capelli.
“Perché da allora in molti hanno sentito musica venire da questa sala, e qualcuno ha addirittura visto della gente ballare. Addirittura molti dicono di aver visto tra questi la povera Annina”.
“E… e tu? Hai mai visto o sentito qualcosa?”
“No, io mai. Però anche mio zio, quello che ancora vive qui, dice di aver sentito spesso la musica venire da qui, di notte”.
“Oddìo… e ancora ha il coraggio di dormire qua?”, adesso la voce le tremava dalla paura.
“Bè sai, è casa sua, è nato e sempre vissuto qui. E poi – aggiunse ridacchiando – dice sempre che i fantasmi che sono qui sono pur sempre nostri parenti, e quindi non c’è nulla da aver paura”.
“Sarà, però adesso ho davvero paura.”
“Se vuoi possiamo andare via… non ti preoccupare, magari torniamo un’altra volta”. Lo disse con troppa sollecitudine. In realtà moriva di paura anche lui. Quel salone lo aveva sempre inquietato, e non solo per la storia di Annina. Quel camino enorme, da cui si apriva la cappa, un immenso buco nero di cui non si vedeva fine, e che inghiottiva famelico le grosse fiamme dei fuochi accesi lì; tutti quelli specchi, che creavano strani giochi di riflessi e di ombre; le porte poi… che portavano nel dedalo di stanze e camerette e passaggi segreti dietro la sala… tutto contribuiva a rendere inquietante quel posto. Anche per lui, che in quella casa aveva passato praticamente tutta l’infanzia e che, come diceva suo zio, era tutto sommato parente stretto delle inquietanti presenze che si aggiravano in quei luoghi.
“Ma che scherzi?” rispose lei, buttando il mozzicone della canna, ormai spenta, nel camino. “Ho paura sì, ma d’altronde siamo qui a caccia di fantasmi. E poi… chissà, potrebbe non succedere nulla, almeno di quello che ci aspettiamo noi”, e si accucciò di nuovo sulla spalla del suo compagno d'avventura.
Peccato che lui in realtà, per quanto apprezzasse molto la maria, non fosse poi questo gran fumatore. Pochi minuti la fine del suo racconto infatti, per effetto della canna, si addormentò quasi di colpo, piegato sul bracciolo del divano con lei appoggiata sulla schiena, ancora spaventata ma adesso soprattutto seccata per l'effetto imprevisto che la fumata aveva avuto sul suo compagno d'avventura. Per sua fortuna in pochi minuti il sonno vinse l'inquietudine e si addormentò anche lei, di un sonno pesante, nero, senza sogni.
Il suo compagno al contrario dormiva agitato, non che stesse avendo degli incubi veri e propri, più che altro nel sonno aveva come dei 'flash' di immagini e sensazioni negative.
All'improvviso però immagini e sensazioni cessarono, lasciando spazio a una musica che veniva da chissà dove. 'È un valzer' pensò nel sonno, 'ed anche suonato molto bene'. Convinto di sognare aprì gli occhi e trasalì. Era sempre nel salone della casa di famiglia, solo che adesso lui e la sua amica, che dormiva accanto a lui, non erano più soli: decine e decine di persone vestite a festa affollavano la sala, illuminata da tre grossi lampadari e numerosissime candele. Al centro del salone molte coppie ballavano, altri invece chiacchieravano tra di loro seduti o in piedi, mentre molti invece entravano e uscivano.
'Non può essere' pensò 'è l'effetto delle chiacchiere e della canna, non c'è altra spiegazione'. Neanche il tempo di finire il pensiero, e una donna lo vide e gli parlò.
“Ma qui abbiamo altri ospiti. Meno male, questa festa finora è stata una vera delusione”. Indossava un lungo abito scuro con il collo di pelliccia e un'ampia scollatura, da cui si intravedevano i seni tondi e sodi. Il viso era incorniciato da capelli nerissimi tagliati a caschetto, tra le labbra un bocchino con una sigaretta accesa.
Gli si avvicinò, gli prese il viso tra le mani e lo baciò.
Fu un bacio profondo, sensuale, appassionato, e per lui fu facile lasciarsi andare. Si sentiva ancora intorpidito dal sonno, ma al contempo eccitato, come capita a volte sognando.
'Al diavolo è solo un sogno', pensò lasciandosi del tutto andare. Rotolò giù dal divano avvinghiato alla donna, e in men che non si dica si ritrovarono seminudi, nel mezzo di un amplesso furibondo. Sentì a un tratto gemiti e rumori inequivocabili provenire dal divano, guardò e vide la sua amica completamente nuda, gli occhi chiusi, la bocca aperta in lunghi gemiti appassionati, a cavalcioni su qualcuno che dalla sua posizione non riusciva a vedere.
Guardò sulla parete opposta, curioso di sbirciare la scena da uno specchio, e trasalì.
Tra le gambe lunghe e bianche della sua amica c'era un cadavere.
La pelle consumata, il bianco delle ossa che spuntava qua e là, il tutto reso ancora più orrido dai movimenti inequivocabili con cui quell'essere entrava e usciva dal corpo della ragazza che poco prima dormiva sulla sua spalla.
'Non mi piace più questo sogno, mi voglio svegliare' pensò, strizzando forte gli occhi, ma quando gli riaprì tutto era come prima. Fece per tirarsi su di scatto, ma scivolò e battè la testa sul pavimento. Il dolore gli annebbiò la vista, e toccando il punto che aveva battuto si bagnò le mani di sangue. Il dolore era reale, il sangue anche, ormai doveva essere sveglio ma la scena intorno a lui non cambiava: la gente continuava a muoversi nel salone, chi ballava, chi beveva, in qualche angolo vedeva altre coppie piacevolmente impegnate e la sua amica continuava imperterrita e forse ancora più coinvolta a cavalcare quel corpo immondo, in putrefazione.
Gridò.
La ragazza si interruppe, distratta dal grido, guardo l'amico e gridò a sua volta, guardandosi intorno.
Una rapida occhiata, e il ragazzo sentì un nuovo urlo nascergli in gola: la donna con cui pochi attimi prima si rotolava in terra, le coppie dei ballerini, i suonatori, tutti erano dei cadaveri ambulanti.
Trovò il coraggio per andare dalla sua amica e stringerla tra le braccia, maledicendo il momento in cui gli era venuta la malsana idea di andare in quella sala di notte.
“Che peccato, che peccato...” disse accorato l'essere che poco prima gli era apparso come una splendida donna. “avete capito tutto. Se vi foste lasciati andare sareste morti al culmine del vostro piacere, senza accorgervi di nulla. Adesso invece purtroppo sarete coscienti della vostra morte, e non sarà una cosa piacevole”.
La ragazza gridò di nuovo, iniziando a singhiozzare.
Lui cercò invece di conservare un minimo di sangue freddo. Deglutì, accarezzandole i capelli, e disse “perché... perché volete ammazzarci? Noi non abbiamo fatto niente di male!”.
“Forse no”, rispose un cadavere panciuto, vestito di una giacca di velluto che a suo tempo doveva essere stata molto elegante, ma adesso era tutta smangiucchiata. “Ma siete degli intrusi qui, e per questo dovete morire, mi dispiace ma è la nostra regola”.
Il ragazzo ripensò alle parole dello zio e decise di tentare. Era un'idea folle, certo, e anche un po' stupida, forse, ma al momento non ne aveva di migliori. “Un momento, io non sono un intruso, questa è casa mia, della mia famiglia”. E snocciolò nome, cognome, e tre o quattro generazioni che ricordava dall'albero genealogico appeso nell'androne d'ingresso.
Gli esseri si guardarono basiti, mormorando tra di loro. Uno strano figuro con grossi 'favoriti' attaccati non si sa come alla pelle marcia del viso si girò alla sua destra e disse “Annina, credi che sia vero?”.
Dalla folla venne avanti quella che doveva essere stata, in vita, una bellissima donna: alta, slanciata, con portamento aristocratico e lunghi capelli biondi che accarezzavano la fronte e il viso putrefatti.
“Potrebbe essere, d'altronde hai un aspetto familiare tu” rivolta al ragazzo, e poi, parlando alla folla “Ha ragione, lui non può essere ucciso”.
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo, ma durò pochissimo.
“Questo però non vale per la tua amica”.
La ragazza sussultò tra le sue braccia, emettendo uno strano verso che doveva essere un urlo strozzato.
“Un momento, come sarebbe a dire? Lei è mia ospite!”.
“Ragazzo, non tirare troppo la corda”. Disse minaccioso il tipo coi baffi.
“Ha ragione” aggiunse Annina “Possiamo risparmiare te, ma la tua amica non ha diritto di stare qui. Però è anche vero che è tua ospite, quindi le daremo una possibilità”.
La folla di morti viventi mormorò sorpresa.
“Nasconderemo la tua amica nel palazzo, e tu avrai tempo fino all'alba per ritrovarla, se non ci riuscirai, lei resterà qui con noi per sempre”.
Il ragazzo aprì bocca per ribattere, ma non ne ebbe modo.
Si ritrovò da solo nella sala buia e abbandonata, come era stata fino a poco prima.
Nell'oscurità echeggiò ancora la voce di Annina.
“Hai tempo fino all'alba per ritrovare la ragazza, poi resterà con noi”.
La stanza fu attraversata da una ventata gelida, poi tornò il silenzio più assoluto.
Il ragazzo si guardò intorno, cercando di convincersi che si trattava solo di un sogno, di un'allucinazione, che lui era lì per caso e che ora sarebbe tornato a casa sua, a dormire. Per terra però c'erano i vestiti della sua amica, la borsa che aveva con sé quella sera. Preso dal terrore saltò giù dal divano e spalancò la prima porta che trovò sul suo cammino.
Prese a vagare per sale e corridoi, percorse i passaggi noti e ne scoprì altri, da tempo dimenticati. Percorse in lungo e in largo soffitte e cantine, scalinate e ballatoi, guardò negli angoli, nelle cappe dei camini, nei sottoscala, ma non trovò nulla.
Corse e ricorse per tutto il palazzo, percosse muri alla ricerca di nuovi passaggi e stanze nascoste, a vuoto.
Quando ormai stava per rassegnarsi sentì dei singhiozzi provenire da una parete di uno dei corridoi principali. Lì aveva guardato e riguardato, ma poteva essergli sfuggito qualcosa.
Accostò l'orecchio al muro e sentì chiaramente l'amica singhiozzare. Era lì dietro, da qualche parte, la chiamò, lei rispose subito.
“Sono qui, sono qui, vieni a prendermi fai presto!”
“Eccomi... sì! Non aver paura! Arrivo subito!”. Corse via a cercare qualcosa per buttar giù quel muro, e tornò in pochi istanti con un pesante candelabro di ottone.
Cominciò a sbattere contro il muro con tutte le forze che aveva in corpo. L'ultimo ostacolo tra lui e la ragazza non era particolarmente solido, e dopo pochi colpi si aprì uno spazio sufficiente a farlo passare. Si lanciò nell'apertura, si vedeva poco, ma i singhiozzi erano vicinissimi, quasi come la ragazza fosse lì, a pochi metri da lui. Provò a chiamarla, ma non ottenne risposta.
Fece luce con l'accendino e si trovò davanti a uno scenario irreale: era in una stanza minuscola, massimo due metri per lato, ma il soffitto non si vedeva, guardando in alto appariva tutto nero, come se quella stanza arrivasse fino al cielo.
Capì subito cosa stava succedendo: la ragazza era da qualche parte sopra di lui, e i singhiozzi che sentiva erano portati dall'eco. Tuttavia non si perse d'animo, e fece per lanciarsi di nuovo alla ricerca, quando a un tratto, un urlo gli fece gelare il sangue nelle vene.
“Noooo!!! Noooo!!!! Lasciatemi! Non voglio! Noooo!”
Guardò ancora sopra di lui e vide che da qualche parte cominciavano a entrare i primi raggi di sole. Scoppiò in lacrime e scappò via, e non rimise più piede in quella casa.
Molti anni dopo un terremoto danneggiò il palazzo. Un operaio, durante la ristrutturazione, scoprì una stanza nascosta. Sul pavimento, rannicchiato, il corpo nudo di una ragazza dai lunghi capelli neri.



lunedì 8 ottobre 2007

Il sogno/1 - Parte Decima





[...]


La sera successiva, per la prima volta da un mese a quella parte, Alfredo non andò nel bosco. Non che non volesse, tutt'altro. Il desiderio e la speranza di rivedere ancora la sua Gabriella davano vita in lui a un'impellenza inaudita, più forte di qualsiasi bisogno fisico.
Quella notte però, quasi facendosi violenza decise di rimanere a casa, non per riposarsi – eppure ne avrebbe avuto un gran bisogno – ma per cercare di inquadrare in un filo logico gli avvenimenti che gli erano capitati da quando aveva deciso di violare il tabù della casupola. E, soprattutto, voleva dare un senso alle ultime parole di Lamiah della notte precedente: “Poi ti spiegherò come diventare più potente di lui”, gli aveva detto prima di mandarlo via. Come avrebbe potuto diventare più forte di un entità in grado di riportare i morti sulla terra, era per lui un angosciante mistero. Eppure sentiva che quello era l'unico modo per non separarsi di nuovo dalla sua donna. E poi chissà, se fosse riuscito a sconfiggere Erlik, probabilmente avrebbe anche potuto riportare in vita Gabriella. Non sapeva come infatti, ma sentiva che tra tutte le cose che gli aveva vietato Penna-rossa la prima volta che si erano incontrati, ce n’era almeno una che gli avrebbe permesso di riportare in vita la sua donna. Certo, poi sarebbero dovuti scappare da lì, nessuno in quel paese ignorava la morte di Gabriella, tutti avevano visto il suo cadavere nella bara. Ma quello era l'ultimo dei problemi, adesso Alfredo aveva tutt'altro a cui pensare.
Ripercorse mentalmente il momento in cui aveva preso la decisione di imbarcarsi in un'impresa folle, che nessuno degli abitanti del luogo avrebbe mai avuto il coraggio di intraprendere.
Ripensò a tutte le storie che aveva sentito su quel luogo misterioso, e che in larga parte aveva scoperto infondate. C'era chi diceva che fosse la dimora del diavolo, altri ancora sostenevano che lì, secoli prima, era stato consumato un terribile delitto, senza sapere bene chi avesse ammazzato chi, ma comunque qualcosa di così terribile che le anime delle vittime vagavano ancora nei dintorni, assetate di vendetta.
C'era infine, chi diceva che quella strana costruzione fosse un punto di contatto con l'aldilà, e Alfredo sapeva bene che questa era la versione esatta. Cercò di ricordare la prima volta in cui aveva sentito parlare di questa leggenda, e all'improvviso, tra il ricordo di una notte passata al cimitero con i suoi amici d'infanzia, scampoli di conversazioni 'paurose' con i cugini più grandi e chiacchiere al bar dopo tre–quattro–cinque birre, la mente gli si illuminò di un ricordo che oramai aveva rimosso: la vecchia Sterina abitava dietro la Chiesa, in una stradina arroccata quasi all'altezza del campanile, distante pochi metri in linea d'aria. Lassù non andava mai nessuno. Le case intorno alla sua erano tutte disabitate e diroccate, e in più su quella povera vecchia giravano strane voci. Si diceva che fosse una strega, che fosse in grado di parlare coi morti e di compiere chissà quali incantesimi. Lei in realtà passava le giornate ad intrecciare canestri davanti la porta di casa.
Ad Alfredo quella strana donna aveva sempre suscitato un misto di curiosità, simpatia e timore reverenziale. Finché un giorno, aveva undici–dodici anni circa, la incontrò sulla salita che portava a casa sua, china sotto un enorme cesto carico di legna per il camino. La aiutò a portarla fin su, e da allora prese ad andarla a trovare, di nascosto sia dai genitori – che lo avrebbero castigato – che dagli amici – che, più prosaicamente, l'avrebbero preso per matto.
Gli piaceva stare con quella vecchia, farle compagnia, guardarla intrecciare i canestri, darle una mano nei lavori pesanti. In cambio lei gli raccontava delle storie. Gli raccontava del marito, morto in guerra, dei suoi antenati, un tempo ricchissimi, tanto da possedere quasi tutto il paese, e poi misteriosamente, neanche lei sapeva spiegare come, caduti in rovina. E poi, soprattutto, gli raccontava le leggende del luogo, storie di streghe, fantasmi, gnomi e folletti. Ma mai, mai, mai, lei aveva accennato alla casupola.
Fin a quando una volta lui, colmo di curiosità, non aveva tirato fuori l'argomento.
Erano nell'unica stanza che costituiva la casa della vecchia, davanti a un fuoco scoppiettante. Dalla finestra si poteva vedere il cielo sbrilluccicante di stelle come lui non l'aveva mai visto. Era un tardo pomeriggio di dicembre, il cielo era scuro e limpido come può essere solo nell'ultimo mese dell'anno, e l'aria era satura della luce delle stelle orfane della luna e per questo ancora più luminose del solito, uniche padrone di quel cielo che dominava il paese vuoto sotto un'aria gelida da tagliare in pezzi ogni minima parte di corpo scoperta.
“Sterina, ma cosa c'è dentro quella casupola vicino al bosco? Perché nessuno ci si avvicina?”
La vecchia alzò lo sguardo dal cesto che stava intrecciando, guardò quel ragazzino curioso che da qualche tempo le aveva fatto riscoprire la gioia della compagnia, e poi guardò fuori, come se stesse chiedendo una risposta al cielo che faceva capolino dalla grande finestra accanto al camino.
“Non c'è niente lì dentro, Alfredo – stranamente, al contrario di tutte le vecchie del paese, lei parlava un ottimo italiano – quella casa è un tramite, un passaggio”.
“E dove porta?” insisté il ragazzino.
La vecchia sospirò ancora, poi tornò a intrecciare il canestro. Alfredo si era quasi rassegnato quando lei riprese a parlare. “Quella casa è un passaggio per il regno dei morti. A volte ai morti è concesso di passeggiare sulla terra, e da lì possono uscire e tornare nel nostro mondo. Solo per poco però”.
“Perché solo per poco? E perché allora la gente non va lì a vedere i propri cari morti?”
“Ma la gente questa cosa non la sa” rispose la vecchia, ignorando la prima parte della domanda.
“E tu perché la sai?”
“Io lo so perché lì andavo a incontrare mio marito, fino a pochi anni fa”.
“Tuo marito?”
“Sì, mio marito. Andavo lì quasi tutte le notti, quando le gambe me lo permettevano, e se ero fortunata lo trovavo lì fuori ad aspettarmi, e passavo la notte con lui”.
“E ora perché non ci vai più?”
“Sono vecchia e stanca, non ce la farei ad arrivare fino a lì. E poi ormai, mio marito me l'hanno portato via”. Parlava con tono indifferente, come se stesse facendo una lista della spesa. Però gli occhi cominciavano a inumidirsi.
Alfredo impietoso però, la incalzava. “Chi te l'ha portato via?”
La vecchia cominciò a singhiozzare, con le lacrime che si infilavano nei solchi scavati dalle rughe sul suo viso. “Una strega me l'ha portato via! Una strega! Alfredo, stammi bene a sentire, tu lì non ci devi mai andare, perché tu sei come me, tu hai il dono, e questa è una cosa molto pericolosa”:
“Quale dono?”
“Tu puoi vedere gli spiriti, e questo a loro piace, e non va bene. Promettimi che non ci andrai mai”.
“Lo prometto – certo di dire la verità – ma perché è pericoloso? E perché la strega si è portata via tuo marito?”
“Perché loro ne hanno bisogno. Hanno bisogno di noi vivi! È l'unico modo che hanno per...” Fu interrotta dall'orologio che suonava le sei del pomeriggio. Si riscosse, smise di singhiozzare, e intimò al ragazzino “Ora vai che tua madre ti aspetta, non farla stare in pensiero”.
“Ma la storia...”
“Te la racconterò domani. Ora vai, su.” Gli diede un bacio sulla guancia e lo mandò via. Poi però, uscendo da lì, Alfredo incrociò suo padre che era uscito a cercarlo, preoccupato di saperlo in giro con quel freddo glaciale.
Subì una delle sgridate più tremende della sua vita, e, chiaramente, non andò più a trovare la vecchia Sterina.
Erano passati quasi vent'anni da quella storia che lui aveva completamente rimosso.
Adesso che ricordava, decise di tornare dalla vecchia. Era ancora viva e abitava sempre lì. L'ora tarda non era un problema, lei aveva sempre dormito poco, e poi, se avesse visto la luce spenta sarebbe tornato indietro.
Arrivato alla strada dove abitava la vecchia si fermò un attimo ad assaporare i vecchi ricordi, pensando a quando arrivava lì circospetto e attento per non farsi vedere, e pieno di timore ed eccitazione per le storie che giravano sulla vecchia donna.
Stavolta invece si sentiva tranquillo. In fondo aveva visto ben di peggio che una povera vecchia sola e calunniata.
Stava per riprendere il passo quando vide una ragazza uscire dalla casa della vecchia. La luce in quel punto era flebile, ma riconobbe immediatamente Lamiah, nonostante il volto fosse coperto dal cappuccio del saio grigio che indossava.
La chiamò, lei non si girò, come se non avesse sentito, ma allungò il passo.
Alfredo cominciò a rincorrerla per i vicoli del paese. Un dedalo di stradine che si attorcigliavano tra di loro attorno la vecchia chiesa, chiunque non fosse stato pratico dei luoghi si sarebbe perso dopo massimo due o tre svolte. La ragazza però procedeva spedita, chiaramente in direzione del bosco. Così spedita che Alfredo la perse. Si trovò a un bivio, entrambe le stradine portavano fuori paese, ma per vie diverse. Rimase immobile a riflettere sul da farsi, nel buio e nel silenzio della notte.
All'improvviso sentì una mano sulla spalla.
Fu come se tutto il sangue delle sue vene precipitasse all'improvviso verso i suoi piedi. Si sentì mancare le forze per la paura e la testa ronzare come piena di uno sciame di api.
Poi si sentì chiamare.
Riconobbe la voce e, non sapendo se essere felice o disperato, si girò.



continua...


non c'entra nulla con il racconto, ma qui potete scaricare uno speciale su 'la casta', cui ho partecipato anche io.

sabato 6 ottobre 2007

Il sogno/1 - Parte Nona

[...]

Lamiah si fermò nel mezzo del lago. Distese braccia e gambe e si abbandonò al placido rollio delle acque. Chiuse gli occhi, assaporando l'energia che le scorreva potente tra le membra, godendo del silenzio che la circondava.
Adorava il suo rifugio. Lo aveva creato dal nulla nel corso dei millenni, ed era rimasto immutato nonostante tutto quello che era successo tra quelle nude pareti di roccia. Adesso era di nuovo abbastanza potente da impedire l'accesso a ospiti indesiderati e da spostarne l'ingresso in qualsiasi punto dell'universo in base alle sue esigenze.
Certo, il suo potere non era ancora così grande come avrebbe voluto, ma era solo questione di tempo, il suo piano andava a meraviglia, anzi, meglio delle sue più rosee previsioni: non solo si era rigenerata molto più velocemente del previsto, ma vedeva anche profilarsi all'orizzonte un'ottima occasione per realizzare i suoi più grandi desideri.
Mentre era immersa in queste riflessioni cercava in tutti i modi di tenere lontano un pensiero maligno che si affacciava prepotentemente nel quadro idilliaco che si andava disegnando nella sua mente.
Lo rimosse pensando al futuro di gloria che l'attendeva. Neanche lei era in grado di immaginare nei dettagli quello che le sarebbe successo una volta che tutti i tasselli fossero andati al loro posto, e questa incertezza sulla reale entità del potere e della felicità che l'aspettavano la faceva rabbrividire di piacere.
Peccato solo per quel pensiero cattivo che la tormentava, con la stessa insistenza di una zanzara particolarmente affamata.
Decise di affrontarlo, fiduciosa che le nuove energie che piano piano stava acquisendo sarebbero state in grado di domarlo.
Ricordò l'ultima – nonché unica – volta che si era sentita così sicura di sé. Le scelte che aveva fatto in quell'occasione e le tremende conseguenze che ne erano derivate. Ricordò il suo esilio millenario, la sensazione della sua essenza che regrediva progressivamente in seguito alla punizione che le era stata comminata, lo stupore esterrefatto che aveva accompagnato la presa di coscienza del suo fallimento.
I ricordi le provocavano un atroce dolore, ciò nonostante riuscì a dominare il pensiero della possibilità che un altro fallimento incombesse su di lei.
Aveva sbagliato una volta, adesso non lo avrebbe fatto più. Conosceva i rischi che correva, e sapeva esattamente come muoversi per evitare adesso l'errore che l'aveva condannata molto tempo addietro.
Sapeva bene che anche stavolta avrebbe avuto un’unica occasione, e che i suoi avversari sarebbero stati più vigili, memori di quanto era accaduto molto tempo prima.
Tuttavia sapeva che stavolta non avrebbe fallito.
Era disposta inoltre a correre un altro, ulteriore, rischio. Piccolissimo certo, ma pur sempre potenzialmente in grado di mandare all'aria tutto il suo piano.
Il buon senso le suggeriva di lasciar correre e attendere tempi migliori, ma la sua irrequietezza, rafforzata dalle energie che aveva assunto quella notte, spingeva per il contrario.
Immergendosi prese la decisione definitiva: infischiandosene dei rischi la notte successiva avrebbe agito.
Nuotò verso la riva e accarezzò il muso del cavallo che fino a quel momento aveva sorvegliato il suo bagno solitario.
“Ancora un po' di pazienza Falstaff – disse baciandolo tra le narici – poi saremo del tutto padroni del nostro destino”. Uscì dall'acqua e si avviò al di fuori di quel luogo irreale nuda com'era.
Camminando a piccoli passi sentiva già sulle labbra il sapore amaro della vendetta.



continua...