Pistolotto moralista nascosto - neanche troppo bene - in un racconto noir.
La donna era in piedi, davanti alla finestra, una mano appoggiata sul davanzale, impeccabile in giacca e pantaloni scuri, i capelli raccolti sulla nuca. Sembrava immersa nella contemplazione del temporale che imperversava lì fuori; lampi, tuoni, saette e un'incredibile quantità d'acqua che si rovesciava sul suo giardino tanto ben curato, ammirato e invidiato da tutte le donne del paese.
In realtà il suo sguardo e i suoi pensieri erano fissi sul vialetto d'ingresso, illuminato da eleganti lampade in ferro battuto.
La donna aspettava qualcuno.
L'attesa durò poco. Era lì da pochi minuti, neanche il tempo di finire la sua sigaretta, e vide procedere per il vialetto una figura ben nota.
Aprì la porta sorridendo, non era la persona, o meglio le persone che si aspettava di vedere, ma era contenta ugualmente.
L'uomo che si trovò davanti poteva benissimo essere appena uscito da un noir americano anni '50: cappello a falde larghe, da cui la pioggia scivolava copiosa su un impermeabile beige, oramai fradicio. Peccato che i due non fossero a Chicago o a Seattle, bensì in un oscuro paesino delle Langhe.
“Toh, ma che bella sorpresa!”. Esclamò lei, sorpresa e contentezza confermate dalla sua espressione.
“La mia visita non è né una sorpresa né tantomeno può dirsi bella, dovresti immaginarlo”. Rispose lui, laconico, voce arrochita da chissà quante sigarette per chissà quanti anni, molti, a giudicare dalle rughe che gli scavavano il viso.
“Invece lo è, te non ti aspettavo proprio. Ma entra dai, che ti bagni”. Il sorriso la rendeva ancora più bella di quanto non fosse, nonostante anche lei di anni dovesse averne un bel po'.
L'uomo entrò, togliendosi il cappello. In fin dei conti era un gentiluomo d'altri tempi. L'impermeabile lo tenne però, infischiandosene dei goccioloni che bagnavano il tappeto all'ingresso.
“Commissario Giovinco! Stai bagnando il mio tappeto!”. Disse lei, sempre sorridente.
“Me ne infischio del tuo tappeto – vitale come una lapide di marmo – e presto anche tu avrai altri problemi. E comunque io non sono più commissario, sono in pensione ora, lo sai bene”.
“E allora qui che ci sei venuto a fare? A prenderti la gloria che ti hanno negato anni fa?”. Lo guardava strafottente, le braccia conserte, le gambe vezzosamente incrociate.
“Faccio solo quello che dovrebbero fare i miei ex-colleghi e i miei successori. Ma pare che adesso le priorità siano altre”.
Lei esplose in una risata sincera, di cuore. “Ti ho sempre detto che sei nato con quarant'anni di ritardo! Di cosa ti meravigli? È giusto che i tuoi facciano così!”.
“Sarà, ma ai miei tempi prima si arrestava poi si parlava, non come ora, prima a pavoneggiarsi davanti a telecamere e microfoni, e poi si procede, e magari l'assassino – o meglio l'assassina – vede tutto in tv e scappa”.
Una risata ancor più fragorosa della prima. “E dove vuoi che vada? Ma mi vedi? Sono una vecchia di quasi sessant'anni, dove potrei mai rifugiarmi? Con questo temporale, poi!”.
“Comunque non sono venuto per portarti via o per sorvegliarti. Vorrei solo chiederti perché, e penso di meritarmi una spiegazione dettagliata”.
“Hai ragione, te la meriti. Ma siediti, e tieniti pure quel dannato impermeabile. Whisky giusto?”. Andò al mobile bar e riempì due bicchieri senza attendere la risposta. Un sorso copioso, e poi continuò. “Allora, cosa vuoi sapere?”.
“Te l'ho detto. Voglio sapere perché”.
“Perché cosa?”. Altro scoppio di risa, stavolta però meno genuino, forse forzato.
Lui, il commissario, tirò un lungo sorso dal bicchiere, sospirò, si accese una sigaretta: “Perché tu, una sera di dieci anni fa, una sera piovosa e maledetta da dio e dagli uomini come questa, ti sei fatta sessanta chilometri di macchina, hai bussato a una porta di una casa come questa, hai aspettato che la migliore amica di tua figlia, una ragazza di nemmeno venticinque anni, ti aprisse, l'hai massacrata a colpi di roncola, e poi te ne sei tornata a casa. Perché? Questo voglio sapere. Perché hai fatto una cosa del genere?”.
Lei vuotò il suo bicchiere, sorseggiando le ultime gocce di whisky. Si alzò per riempirlo ancora, ancheggiando come se avesse avuto trent'anni di meno. Tornò alla sua poltrona, un sorso, un'altra sigaretta. Poi rispose, o meglio, finse di, con lo sguardo della gatta che gioca col topo: “Sei sempre stato bravo, troppo bravo per fare lo sbirro”. Un altro sorso, accompagnato da uno sguardo languido.
Lui deglutì, si bagnò le labbra prima di rispondere, o meglio, ribattere: “Questo cosa c'entra ora? Non sono venuto qui per parlare della mia bravura”. Un tremolio della voce tradì il suo nervosismo.
“Modesto e integerrimo, forse anche troppo. Tanto da non venire a letto con me. Eppure allora ero un bel bocconcino no?”. Bevve ancora, guardandolo fisso negli occhi.
Lui vuotò il bicchiere d'un fiato. Andò al mobile bar e se lo riempì di nuovo, portandosi dietro la bottiglia. Si sedette di nuovo, spense la sua sigaretta direttamente sul parquet, acciaccandola col tacco, poi ne accese subito un'altra, senza dir nulla. La donna colse la palla al balzo.
“Tu avevi capito tutto, ti mancava solo una prova. Che peccato – sembrando realmente rammaricata – quanto talento sprecato”.
“Il tuo alibi faceva acqua da tutte le parti”. Intervenne lui, dopo che due sorsi lo avevano tirato un po' su.
“Per te, forse. Ma quale sbirro 'normale' – facendo con le dita il gesto delle virgolette - avrebbe messo in dubbio la parola di una stimata madre di famiglia come me?”.
Lui non rispose, non bevve, non tirò dalla sua sigaretta. Rimase immobile, fissandola, respirando rumorosamente, di rabbia, come un toro che si prepara a caricare.
Lei, per nulla impressionata dalla sua collera, lasciò passare almeno un minuto prima di continuare.
“L'ho fatto per invidia”. Gelida, con due cristalli di ghiaccio al posto degli occhi. “Marisa era sempre stata 'la prima della classe'. Brava a scuola, bella, con i ragazzi più belli a farle la corte eppure sempre con la testa con le spalle”.
Il commissario intuì la piega del discorso della donna, e un brivido gli percorse la schiena.
“Aveva cominciato a lavorare come giornalista, un ottimo posto, a due passi da casa. E stava per fare un ottimo matrimonio, con il figlio del deputato locale”. Altro sorso, altra sigaretta. “La mia Francine invece, passava per una poco di buono”.
E Dio sa se non lo era – pensò il commissario – sempre accompagnata con i peggiori ceffi della zona.
“Eppure non era colpa sua.”
Il commissario non aveva mai conosciuto una madre pronta a riconoscere le colpe del sangue del suo sangue.
“Solo che aveva scelto una carriera difficile. Nel mondo dello spettacolo, si sa, non entri se non hai conoscenze, agganci”. Un'altra pausa per riempirsi ancora il bicchiere. “E qui, in montagna, che agganci puoi mai avere?”. Lo guardò accorata, quasi cercando comprensione.
E lui, per un momento, quasi quasi ci cascò.
“La chiamai così apposta, Francine D'Aguanno, un nome perfetto per una star, non trovi?”.
Il briciolo d'empatia che aveva provato svanì di colpo.
“Eppure... non era servito a nulla, come tutti quei provini, quelle audizioni...”
Una ragazza di venticinque anni morta per le frustrazioni di una madre psicotica. Iniziò a rimpiangere di non avere con sé la pistola, ma nello stesso tempo gli sembrava che ancora mancasse qualcosa per il quadro completo. “Ok eri invidiosa, ma perché ammazzarla?”.
“Per cogliere due piccioni con una fava”. Rispose lei, stringendo le spalle, come fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Cosa?”.
“Per liberarmi di un peso, e dare finalmente alla mia Francine la sua possibilità”.
Cominciava a capire, ma preferì far finta di nulla, almeno con se stesso.
“Cosa intendi per... possibilità...”.
Lei adesso aveva perso tutta la sua sfrontatezza, sembrava un'insegnante di latino intenta a spiegare a un alunno particolarmente lento la perifrastica passiva. “Ricordi in quei giorni, quanti giornalisti, quante telecamere... sapevo che sarebbero arrivati - all'improvviso prese un'espressione sognante, con gli occhi a guardare un punto indefinito sulla parete – la mia piccola fu bravissima, a recitare la parte dell'amica affranta con i giornalisti delle tv...”.
Lui tossì fuori il fumo e il whisky che aveva appena ingurgitato, per la prima volta quella sera veramente incredulo. “Ma... ma... lei era la sua migliore amica!”, quasi gridò.
La donna riscoppiò a ridere. “Migliore amica! A venticinque anni! Cosa vuoi che se ne sappia a quell'età? E comunque non conta. La mia piccola fu bravissima, tanto che, ricorderai, cominciò ad andare in tv.”
Il commissario ricordava, eccome se ricordava. Un ignobile e squallido balletto mediatico, con quell'imbecille di Francine a concedere interviste a destra e sinistra prima, poi intenta a saltare da un salotto televisivo all'altro, sempre scosciata, sempre pronta alla lacrima. E poi ancora un reality, una fiction, addirittura un film, e una serie infinita di ospitate in tv. Ormai era una celebrità, solo perché le avevano ammazzato la migliore amica, e in paese non la si vedeva quasi più, anche se ultimamente, la sua fama era un po' in calo.
“E tu sapevi che sarebbe andata così?”. Sempre più incredulo.
“No, non lo sapevo. Lo speravo.”. Di nuovo glaciale. “E mi è andata bene”.
“E tu hai ucciso una ragazza per una ...” - stava per dire speranza, ma si interruppe, la donna intervenne per togliergli l'impaccio.
“Una speranza sì, e una soddisfazione personale, non dimenticarlo”.
“Ma adesso pagherai tutto, brutta bastarda”. Il bicchiere gli si sbriciolò tra le mani, tanta era la rabbia, ma lui quasi non si accorse dei vetri che gli entravano nella carne, annichilito dall'ennesima, insopportabile risata.
“E cosa vuoi che paghi? Quanto vuoi che rimanga in galera io, alla mia età, con la mia fedina penale immacolata?”. “Pochi mesi al massimo, poi andrò in tv a fare compagnia a mia figlia, poverina, aveva proprio bisogno di un'altra spinta. Sai che colpo, io e lei assieme? La starlette e sua madre assassina!”
L'ombra di un sospetto cominciò ad accarezzargli la nuca, come sempre succedeva quando aveva un'intuizione, pensò che forse era meglio fare finta di niente, di non aver sentito. Poi però la curiosità ebbe la meglio.
“Cosa vuol dire 'aveva proprio bisogno di un'altra spinta'”?
“Oooohhh, andiamo Giovinco, uno così sveglio non ci arriva da solo?”.
Si alzò, riempì il bicchiere e tornò a sedere, assaporando con gli occhi l'ansia di sapere del commissario.
“Ti sembra un caso – riprese dopo un minuto scarso lungo un secolo per il commissario – che adesso, dopo dieci anni salti fuori l'arma del delitto? La prova che tu non hai mai trovato?”
La sua intuizione stava diventando realtà, ma stavolta, contrariamente a quanto gli succedeva durante la sua carriera, non se ne rallegrò per nulla.
“E non ti sembra strano che dopo dieci anni, le tracce sulla lama, sul manico, siano ancora così nitide?”.
“L'hai... l'hai fatta trovare tu....” incredulo.
“Esatto. L'ho nascosta per tutto questo tempo, e ora l'ho tirata fuori. Pensa... l'altra sera la mia Francine è stata con un calciatore. Il porco ha fatto i suoi comodi, e poi le ha detto che lei era 'troppo poco famosa per lui'”. Accese l'ennesima sigaretta. “In quel momento ho capito che era ora che l'arma saltasse fuori. Adesso la mia Francine sarà per tutti la figlia dell'assassina della sua migliore amica. Vale a dire altre ospitate in tv, magari un'altra fiction, forse un film. E tra qualche mese, il tempo di una pena ridicola, io sarò accanto a lei, a fingere di espiare. Amore filiale ed espiazione, una manna per l'audience, non credi?”.
Non credeva, ma alle sue orecchie. Aveva capito subito, dieci anni prima, che quella donna era un'assassina, ma non era mai riuscito a incastrarla, e, soprattutto, non aveva mai capito i suoi moventi. Forse perché accecato dall'attrazione che provava per lei. Adesso avrebbe dato un rene e uno dei suoi malandati polmoni per non essere mai entrato in quella storia.
All'improvviso una sirena ruppe il silenzio.
“Toh, i tuoi amici hanno finito la conferenza stampa, che fai, li aspetti?”. Aveva appena confessato l'omicidio di una ragazzina, stava per essere arrestata, eppure ancora trovava la voglia di prenderlo in giro.
Giovinco si alzò e, senza dir nulla, uscì. Al cancello incrociò il commissario Bevere, il suo successore, i capelli impomatati, il viso ancora imbalsamato dal cerone per la diretta tv della sua conferenza stampa. L'idiota lo salutò battendo i tacchi, lui lo scostò bruscamente. Pochi metri più avanti trovò un capannello di giornalisti e cameramen. Uno di loro, un vecchio cronista di nera che aveva seguito il caso tanto tempo prima lo riconobbe e gli chiese: “Commissario Giovinco, lei all'epoca aveva capito tutto, è felice ora che il caso è risolto?”.
Giovinco lo guardò, interdetto, poi rispose: “Non avevo capito nulla. Non capisco nulla”.
Poi, si accese una sigaretta, e sparì nella pioggia.
Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti è puramente casuale e non voluto.