lunedì 3 novembre 2008

Diluvio

Da qualche parte bisogna pur (ri)cominciare









Fuori piove che dio la manda. Importa poco, io sono al chiuso di un bar con la donna che amo. Troppo impegnato a studiare i solchi che le lacrime scavano sul suo viso a fiotti di mascara per preoccuparmi del diluvio che sommerge la città.

Sara conciona una delle sue solite filippiche, epiche e inutili come una canzone degli Europe, contro lo stronzo di turno.

Pianti e urla e strepiti, tanto poche ore ancora e sarà di nuovo tra le sue braccia, o di un altro ancora: tutto muscoli e poco cervello, tanto cervello e pochi muscoli, poco di tutti e due ma tanto di… importa poco, tanto comunque non sarò io.

Parla e racconta e singhiozza, io la sento ma non la ascolto, troppo impegnato a riflettere sui momenti che mi hanno portato ad essere il suo miglior amico piuttosto che il suo compagno, e a osservare come gli occhioni lucidi e le labbra contratte la rendano ancora più terribilmente desiderabile.

Su di me gli occhi degli altri clienti del bar. Sguardi di commiserazone e maschile solidarietà, che noi uomini capiamo al volo lo strazio di uno innamorato di una che non gliela da’. Che un briciolo di senso in più l’abbiamo anche noi, checché se ne dica.

Il bar chiude e ci sbatte sulla strada e sotto il diluvio.

“E non abbiamo niente con cui coprirci!” dice Sara, ancora imbrattata di orgoglio ferito e mascara.

“Allora tanto vale approfittarne” rispondo io in un fremito di inizativa.

La abbranco e la bacio, le sue labbra si schiudono dopo un attimo di esitazione, spalancandomi mond fino ad ora soltanto immaginati. Le sue mani si stringono sulla mia nuca ed è l’ultima cosa che ricordo, prima che i nostri corpi si fondano sotto la pioggia.

mercoledì 12 marzo 2008

Falso d'autore




Il mio primo incontro con il Mago avvenne su un campetto polveroso della bassa Ciociaria. Io ero un promettente centravanti con il miglior piede sinistro che si fosse mai visto tra il fiume e l’autostrada, lui l’uomo a cui la dirigenza aveva affidato le nostre speranze di riscossa per quell’anno, il mio primo con la squadra dei grandi. Si spacciava per argentino, ma in realtà era nato a Tropea da un marine in libera uscita e una donnina piena d’amore verso il prossimo e un tariffario più che conveniente, e in Argentina c’era scappato a 15 anni, dopo aver mancato di rispetto alla ragazza sbagliata. Questo tuttavia, lo scoprimmo solo molti anni dopo.
Lo chiamavano il Mago perché di lui si raccontavano aneddoti leggendari: aveva insegnato a giocare a pallone ai giganti della Terra del Fuoco e allenato due giovanissimi Kempes e Maradona. Poi, per qualche misterioso motivo, aveva ricevuto un foglio di via ed era stato imbarcato sulla prima nave diretta in Europa. Per ingaggiarlo tutto il paese si era autotassato, d’altronde da troppi anni il nome della nostra squadra faceva sorridere anziché incutere timore.
Quel giorno che incontrai il Mago stavamo giocando un’amichevole contro la squadra dell’alto lato del fiume. Era una partita d’allenamento, ma tra i due paesi c’erano rivalità che risalivano ai tempi di Enea profugo dall’Asia minore, e quindi l’arbitro aveva espulso due dei nostri e due dei loro, e io ero entrato per sostituire il nostro centravanti, messo fuori causa da un gancio del terzino avversario. Eravamo sullo 0-0 quando l’arbitro assegnò agli avversari un calcio di punizione dal vertice destro dell’area. Il portiere posizionò la barriera, l’ala destra avversaria misurò i passi della rincorsa e l’arbitro mise il fischietto tra le labbra, quando l’aria fu scossa da un urlo disumano. Il mago aveva gettato a terra la sua Gauloises, il suo berretto e adesso saltava forsennato a piedi uniti su quella strana accoppiata, lanciando improperi contro il mondo e, soprattutto, contro il nostro portiere.
“La barriera mettila sul secondo palo! - Gli gridò – e tu pensa a coprire il primo, non vedi che questo è un mancino?”
La barriera sul secondo palo era una delle sue principali innovazioni tattiche: un mancino, da quella posizione, può solo tirare sul primo palo, e se il portiere è piazzato, la palla non entrerà mai.
Il portiere eseguì, arbitro e avversari osservavano il tutto perplessi, e il gioco poté riprendere solo quando Il Mago accese soddisfatto un’altra Gauloises e si sistemò il berretto sulla chioma fluente.
A quel punto Ciccio il macellaio, terzino della squadra avversaria, si portò sul pallone. Allontanò con una spinta il talentuoso funambolo che si apprestava a calciare e prese una rincorsa lunghissima. Al fischio dell’arbitro partì al galoppo, il terreno tremò come scosso da una mandria di bufali e lui prese il pallone dritto nel mezzo, con la punta dello scarpino, come solo i veri terzini sanno fare. La palla schizzò diritta tra il primo palo e la traversa, ponendo fine alla pacifica vita di una colonia di ragni che lì viveva da tempi ormai dimenticati.
La Gauloises e il berretto finirono di nuovo nella polvere e la nostra stagione cominciò nel peggiore dei modi.

giovedì 22 novembre 2007

Bar Claudio/2. Scopiazzature da gente molto più in gamba di me

Lo avete mai visto un cielo arancione?
Non capita spesso, ma si vede quando c'è la foschia bassa su cui si riflettono le luci dei lampioni.
Stamattina il cielo di Roma è così, arancione e pesante di una foschia densa e impensabile solo qualche anno fa, ma adesso a Roma c'è anche la nebbia, che manco in Brianza, alle volte.
Che poi dico stamattina, ma in realtà per me è ancora notte fonda, anzi la notte, quella del sonno, deve ancora arrivare. Cammino per una via buia, che i lampioni qua sono un optional, un giorno a settimana, in genere il lunedì, poi si rompono e rimangono così, scheletri ciechi fino al lunedì successivo, quando li riaggiustano per poche ore, poi si rompono ancora e si ricomincia da capo.
Per fortuna in lontananza c'è l'insegna del bar Claudio, a segnare la rotta per questo marinaio ubriaco, troppe ondate alcoliche da smaltire per mantenere le rotte, e poi, stamattina, le stelle non ci sono nemmeno, affogate dalla foschia.
Claudio è lì, dove lo avevo lasciato ieri sera, occhiaie d'ordinanza e servizio in automatico, che questa più che mai è un'ora da aficionados.
Gli basta uno sguardo e un grappino mi passa tra le mani. Il bicchiere della staffa, che “questo lo offre la casa”, così, perché a Claudio gira bene. Forse ha passato una bella notte, chissà. O forse gli gira così e basta, meglio non indagare, che a Claudio le domande piacciono poco, e a me a quest'ora di farle non è che mi vada molto.
Mi vergogno quasi a chiudere la mia nottata gomito a gomito con i “clienti del mattino”: berretti di lana, parka d'ordinanza e scarponi anti-infortunio, cappuccino e due cornetti, che una dura giornata di lavoro ancora ha da cominciare.
Li guardo tra le volute del fumo di svariate sigarette, che chi se ne frega della legge Sirchia, questa è l'ora del lupo e chi mette il naso fuori di casa lo fa a proprio rischio e pericolo, e lo sa bene. Che sarà mai qualche minuto di fumo passivo?
Sono a metà bicchiere quando a darmi man forte entra qualcun altro che la notte ancora deve incominciare: la chiamano Flavia, centimetri e centimetri affusolati su tacchi che sfidano non tanto le leggi della fisica quanto quelle della logica. Apparentemente più donna di tutte quelle che ho conosciuto biblicamente, ma con ogni probabilità più uomo di me, volendo ridurre tutto a una mera questione di centimetri. Grappino anche per lei - o lui fate voi. “È fine serata bello, metà prezzo, solo per te” mi sussurra.
Mi illudo che sia per un puro e umano desiderio di carne fresca, dopo una notte in Prenestina inoltrata dentro e fuori dal raccordo, e non per pagarsi sigarette e pranzo dell'indomani, o di oggi, fate voi.
Per stanotte ne ho viste abbastanza, lascio Claudio tra gli sbuffi della macchina del caffé, e mi concedo il sonno, del giusto o meno, fate voi.

martedì 20 novembre 2007

Bar Claudio/1. Scopiazzature da gente molto più in gamba di me

Bancone di formica laccato verdino, sedie di legno nero e vimini, tavolini incellophanati che così si puliscono prima. In un angolo i giornali di oggi – il Messaggero e Il Corriere dello sport, e come ti sbagli? – tutti spiegazzati, sporchi di grasso d’automobile – Gino il carrozziere – e unti di patatine e tramezzino, segno che la giornata è quasi finita. Io e Claudio ai due lati del bancone, ciascuno al suo posto, consapevole del suo ruolo. Un bicchiere a testa, rosso per me, che non è mai troppo presto per un goccio di quello buono, cedrata per lui, che ancora c’è da pulire tutto e buttare la spazzatura.
La porta si apre, entrano gli anni ’70: 1,80 per un quintale almeno, avvolto in un pesante loden verde scuro, occhiali di corno spessi quanto una bottiglia di ferrarelle, di quelle che ti portava a casa il garzone nella cassa gialla, tutte verdi di cui però una su sedici era bianca e chissà perché ti sembrava sempre più buona delle altre. Borsello di pelle e mocassini di cuoio. Chiede un caffè, e ti stupisci che gli venga servito in tazzina bianca ‘haiti’ e non marrone dentro bianca spessa sette millimetri. Tira fuori due euri che sembrano cinquecento lire, incassa il resto e se ne va.
Il professore” dice Claudio, “era da ‘n po’ che ‘n se vedeva”. Vive rintanato in una mansarda con vista Casilina, ma dopo il fiume di macchine e il trenino si vede l’acquedotto, e scrive la ‘Storia del vino. Dalla preistoria all’Italia dei sommelier’, ma a guardarlo bene sembra che si dedichi più allo studio della materia che alla sua futura divulgazione.
Velocissimo apri-e-chiudi, tic-toc da tacco 12 e sbuffo di chanel n° 5. Non serve neanche girarsi per sapere che è scoccata l’ora della ‘bionda’, Federica. Bella e impossibile e per questo è ancor più bella, schiocchi di bacetti lanciati all’aria per coerenza col personaggio e cicaleggio di ‘tesoro mio’ e ‘bello come stai’. Rapido accavallarsi di gambe che promettono il paradiso senza mantenere mai, almeno al di là di Porta Maggiore, secondo i maligni che forse c’avevano sperato più del lecito.
Il mio bicchiere è vuoto, e per stasera va bene così.

Ogni cosa al suo posto




Bicchiere insaponato, sciacquato e asciugato con il panno giallo, a sua volta appeso bello steso sull'appendino sopra i fornelli. Una passata di spugnetta – da riporre poi nel contenitore di plastica appeso alle piastrelle sotto lo scolapiatti – sul lavello, per non lasciare le macchie di detersivo. Bicchiere riposto nello scaffale sopra i fornelli.
Fece tutto automaticamente, con la mente momentaneamente altrove, nel posto strano e lattiginoso dove passava la maggiorparte del tempo.
Una volta richiuso lo scaffale però un pensiero irriguardoso, forse addirittura cattivo, sicuramente sbagliato: “Perché tutta questa manfrina di lavasciuga se tra poco io stesso riberrò da quel bicchiere? Non sarebbe più comodo lasciarlo lì, vicino al lavandino, usarlo tutta la giornata e magari lavarlo la sera?”
Rispose sua madre: “Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”.
“Grazie mamma”, disse ad alta voce, pur essendo come sempre da solo. Sua madre aveva un proverbio adatto a spiegare e a dare indicazioni su come comportarsi in ogni situazione.
“Sì ma il posto di quel bicchiere non potrebbe essere lì, sul lavandino o sul tavolo o sul bracciolo della mia poltrona?”.
Un altro pensiero non conforme, il secondo in pochi minuti. Forse era il caso di prendere la pillola blu? Anzi, a dirla tutta era il terzo, visto che poco prima di alzarsi per bere aveva chiuso il giornale per vedere se sulla pay-tv davano qualche film decente, senza trovare nulla che valesse la pena guardare. Eppure lo sapeva, a quell'ora, le cinque del pomeriggio, in tv non davano niente, per questo suo padre gli aveva intimato di leggere il giornale tra le quattro e le sei, tra il riposino post-prandiale e la sua visita quotidiana, così da avere qualcosa di cui discutere nelle due ore in cui sarebbero rimasti assieme.
Non gli dispiaceva essere informato, sapere quello che succedeva nel mondo, e poi “Di tutte le malattie, l’ignoranza è la più pericolosa”, diceva sempre sua madre.
Però quel pomeriggio, alla vista di un articolo in cui un ministro delle finanze accusava le congiunture sfavorevoli della scarsa crescita del paese, si era veramente infastidito: da anni sempre la solita solfa! Eppure sapeva che non era bene discutere le notizie che arrivavano dall'alto. Gliel'aveva spiegato suo papà, quando lui era piccolo. “Un buon cittadino obbedisce alla legge senza farsi troppe domande!”, un'affermazione e un tono che non ammettevano regole.
Troppi pensieri sbagliati, quel pomeriggio, decisamente doveva pendere una pillola blu. Come diceva il dottor Levi, lui non era cattivo, o sbagliato. Semplicemente alle volte gli venivano delle idee bislacche, e le pillole servivano a rimetterlo in carreggiata. Blu per cominciare, rosse se la situazione diventava più seria. Aveva imparato ad amministrarsi da solo, 'autocontrollo', lo chiamava suo papà. Era solo questione di tempo, diceva il dottor Levi, e presto non avrebbe avuto più bisogno delle pillole. “Chi fatica in giovinezza, gode i frutti in vecchiezza.” il parere di sua madre sulla faccenda.
Già, ci voleva una bella pillolina blu.
“Vado subito mamma!”, esclamò immaginando lo sguardo di rimprovero di sua madre, se avesse potuto sentire quei pensieri.
Tornò in cucina, prese le pillole dal primo cassetto, quello delle medicine. Bicchiere d'acqua, un unico sorso, lavasciuga, pulizia del lavandino, straccio, spugnetta e bicchiere al proprio posto, e via in poltrona a leggere il giornale.
Dall'economia agli spettacoli, poi lo sport e la cronaca locale. Tanto ancora da leggere, ce l'avrebbe fatta appena per l'arrivo di suo padre, alle sei in punto, come tutti i giorni. Una lettura distratta, giusto per incamerare i fatti salienti, come ormai aveva imparato a fare, per fare contento suo padre. Ma quel pomeriggio non era cosa. Il silenzio della casa lo opprimeva, hai voglia a dire “Dall’albero del silenzio pende per frutto la tranquillità”, come la mamma. Quel pomeriggio avrebbe tanto voluto scambiare quattro chiacchiere con qualcuno, con un amico. Eh sì che fino a poco tempo prima, prima del fattaccio, di amici ne aveva parecchi. Ai suoi non piacevano, “un branco di debosciati”, aveva sentenziato suo padre. “Amico di ventura niente vale e poco dura!”, la mamma. E con il dottor Levi erano stati d'accordo nell'attribuire la colpa del fattaccio ai suoi amici, a Giampiero, in particolare. Eppure avrebbe potuto chiamarli, in effetti con loro non aveva litigato. Chissà, forse lo avrebbero capito. Giampiero sicuramente.
Un altro pensiero sbagliato. Sbagliatissimo addirittura. Forse la pillola blu non avrebbe fatto effetto, o forse ci avrebbe messo un po' più del solito.
Certo che stavolta l'aveva pensata grossa. Un pensiero da pillola rossa, quasi. “Scusa mamma” mugolò spaventato.
E poi non avrebbe potuto chiamare nessuno. Aveva sì un telefono, ma ogni mese con la bolletta arrivava la lista delle telefonate a suo padre, e avrebbe scoperto tutto, vedendo un numero diverso dai tre – mamma, papà e dottor Levi – che gli era concesso chiamare.
Non gli era proprio andata giù questa storia della 'bolletta trasparente', “chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere!” avevano sentenziato all'unisono mamma e papà dopo le sue rimostranze. Una delle frasi più amate dai dittatori, aveva letto una vita fa, quando ancora poteva scegliersi le letture.
Avrebbe potuto uscire sul terrazzo, vedere un po' di gente, almeno dall'alto, ma da casa sua la vista non era un granché. Vedeva viale Parioli, fiumi di macchine e di gente indaffarata a fare 'cose', tutti di corsa e nervosi. E di fronte il palazzo dei suoi.
Però avrebbe potuto usare il computer, che non era controllabile. Certo, in teoria poteva usarlo solo dalle 9 alle 11, quando sua madre gli puliva casa, e buttava un occhio sul monitor per vedere cosa stesse combinando. E poi era protetto da password. Lui però aveva scoperto la password che aveva no scelto i suoi, e la connessione era di tipo 'flat', quindi nessun report in bolletta. Giampiero aveva un blog una volta, prima del fattaccio. Poteva provarci, e poi cancellare le pagine viste dalla cronologia, che non si sa mai.
Oddìo che pensiero orrendo! Ingannare così i suoi genitori e il dottor Levi! Decisamente aveva bisogno di una pillola rossa.
Mentre pensava così però era già entrato nella sua stanza da letto. Lì, sulla scrivania, il suo portatile, chiuso. Accanto al pc, come anche sul tavolo della cucina, sul mobile del soggiorno e sulla mensola del bagno, la madre aveva amorevolmente appoggiato una pillola rossa, per i casi estremi. La prese in mano e la tenne stretta, mentre accendeva il pc. Comparve la schermata che richiedeva la password. “Cicciolo”, aveva sempre detestato quel nomignolo. Strinse il pugno con la pillola sulle labbra, mordendosi le nocche. La stava facendo davvero grossa! “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino!”, così si era opposta sua madre alla sua richiesta di avere un computer, sostenendo che sarebbe stata una tentazione troppo grossa. Ma il dottor Levi era stato d'accordo con lui, e aveva convinto i suoi. “Deve imparare a dominare i propri istinti. Il computer è solo il primo di una serie di piccoli passi” aveva detto. E adesso lui stava per tradire la fiducia del dottore.
Ma d'altronde non avrebbe fatto nulla di male. Voleva solo sapere qualcosa di Giampiero. Si sarebbe accontentato di vedere se aveva ancora un blog, se casomai scriveva qualcosa su di lui, l'amico perduto, sul fattaccio. Non l'avrebbe contattato. Forse.
“Scusa mamma, scusa papà, mi scusi dottore”.
Sbriciolò la pillola tra le dita e aprì il browser.


continua... (forse)

venerdì 16 novembre 2007

La rovesciata di Parola





Tanto per spezzare un po' l'elenco di demoni, fantasmi e morti ammazzati.


Carlo Parola. Il nome ai più non dice niente, forse, ma lo conosciamo tutti come una delle icone più belle della nostra infanzia: la rovesciata delle figurine Panini, il gesto tecnico più bello del calcio reso immortale da decenni di figurine. Pensavo a lui quella mattina, una grigia mattina di dicembre in cui tutto faresti tranne che uscire dal letto alle 8:00 per andare a giocare a pallone. Invece io andavo proprio al campo sportivo, e camminando – troppo freddo per il motorino – pensavo a Parola che spazzava la sua area in rovesciata e immaginavo un gol così, anche solo per sapere cosa si prova. La partita valeva tutta la stagione: derby della categoria allievi contro quelli del paesino sull’altro lato del fiume. Vincendo ci saremmo trovati primi in classifica, ma non ce ne fregava poi molto, l’importante era vincere il derby, il resto veniva dopo. E invece la partita fu una delle più squallide dell’intero torneo, di quelle che quando l’arbitro fischia la fine è un sollievo per tutti. La palla rotolava ormai verso la linea di fondo e verso il triplice fischio che avrebbe sancito quell’ignobile 0-0. Il terzino avversario l’aveva ormai battezzata fuori. Ma non conosceva Ivano. Lui, Ivano, non era uno qualunque. Scarpone come ne ho visti pochi, ma credeva all’impossibile. Quella volta scattò come se qualcuno gli avesse infilato un intero mazzo di peperoncini dove non batte il sole, lasciò basito l’improvvido terzino impegnato in un goffo tentativo di protezione della palla e svirgolò al centro un cross improbabile come la Pasqua di Maggio. Vidi il pallone impennarsi in una traiettoria che sfidava tutte le leggi della fisica e, forse ammirato da ciò, decisi di fare altrettanto. Il mio corpo elastico di sedicenne si produsse in una serie di movimenti in contemporanea: torsione, salto e “bicicletta” e collo piede sinistro a incocciare in pieno il pallone, che finì la sua corsa sotto il “sette” del palo più lontano. Fu silenzio, e poi un boato di ammirazione. In campo i miei compagni correvano ad abbracciarmi e a portarmi in trionfo. In tutto ciò io esultavo smadonnando perché il campo di terra e pietre del paesello aveva deciso di lasciare sulla mia chiappa destra il ricordo di un gol capolavoro. Il gol che valeva la partita dell’anno, realizzato con un gesto immortale, di quelli che se ti riescono davanti a una telecamera sei un fenomeno. Manco a dirlo, le telecamere al nostro campo sportivo non si erano mai viste, però ancora adesso al bar ho sempre il caffè pagato, e quando passo la gente si dà di gomito e dice “Guarda! Arriva quello delle figurine Panini”.

lunedì 12 novembre 2007

Il sogno/1 - Parte Undicesima



Riassunto:
Una casupola, quadrata, pochi metri per lato, in mezzo a una radura circondata da un bosco, da sempre evitata dagli abitanti dei paesi circostanti a causa delle strane leggende che si raccontano. È proprio a causa di una queste – secondo cui la casupola sarebbe un punto di contatto tra il regno di morti e il nostro mondo – che Alfredo una notte decide di recarvisi, nella speranza di riuscire a rivedere la sua Gabriella, morta qualche mese prima. Il ragazzo riesce nel suo scopo, grazie all'aiuto di tre strani personaggi che incontra nella radura: Erlik (Penna Rossa, dalla penna che porta in testa, il capo della comitiva), Gorka (vestito da cowboy, appassionato di rock anni '70) e Lamiah (una strana ragazza più simile a un troglodita che a un normale essere umano che parla per versi gutturali). I tre promettono di aiutare Alfredo a rivedere la sua donna più volte, in cambio di oggetti di uso quotidiano (dischi, vestiti), il ragazzo però non potrà assolutamente toccare Gabriella, né tantomeno portarla fuori dalla radura, in più non può sapere quando, come e per quanto tempo gli sarà concesso incontrarla. Successivamente però le cose si complicano: Lamiah riappare come una splendida donna e tenta di sedurre Alfredo, mentre Gorka lo scaccia dalla radura e gli annuncia che gli sarà concesso di incontrare la sua donna solo un'altra volta. Alfredo per vederci chiaro va a casa di Sterina, una vecchia del suo paese che per prima, quando era un bambino, gli aveva raccontato della casupola. Arrivato a casa della vecchia però, vede Lamiah uscire dalla porta. Tenta di inseguirla senza riuscire a raggiungerla. Si ferma a un bivio, e sente una mano poggiarsi sulla sua spalla.

[...]

“E tu che ci fai qua?”

Alfredo non sapeva cosa rispondere, non poteva certo dire come fosse finito lì, in più la sorpresa gli impediva di inventare una qualsivoglia scusa. “Niente... non sto facendo niente... tu piuttosto... cosa ci fai qua?” Rigirò la domanda a sua volta, contento di essersi liberato dal peso di dover inventare una risposta plausibile.
“Beh, io qui ci abito, o te ne sei dimenticato?”. Gli rispose come si risponde a un bambino che chiede di colore è la luna. “Sono contento di rivederti, Alfredo, tornavo giusto da casa tua”.
“E cosa c'eri andato fare?”. Il tono era duro, arrogante, e non rendeva affatto bene il mix di delusione – per aver perso la ragazza – e di sorpresa e gioia per l'incontro inaspettato.
“Andavo a dare acqua alle piante!”. Il tono finto–esasperato della voce che Alfredo conosceva molto bene.
I due risero, poi si abbracciarono.
L'altro ragazzo era Luca, il migliore amico di Alfredo. I due si conoscevano da quando avevano preso consapevole coscienza del mondo che li circondava, e forse anche da prima, visto che erano nati con poche ore di distanza.
“Dai, vieni con me, andiamo a berci una birra”, disse Luca, apparentemente non disposto a repliche negative.
“Ma è tardi – Alfredo, incurante della risolutezza dell'amico – a quest'ora il bar è chiuso”.
“Sì ma Franco sta facendo le pulizie, se glielo chiediamo ci lascia le chiavi e qualche birra fuori. Non ti preoccupare, dai, è una vita che non ci si vede”.
La replica dell'amico bastò a convincere Alfredo, che, ormai convinto di non poter più riprendere la ragazza, era tutto sommato contento dell'incontro imprevisto.
Come detto da Luca, Franco il barista lasciò il bar aperto solo per loro, con l'impegno di non sporcare troppo, spegnere tutte le luci, chiudere bene la porta e non fare entrare nessun altro, sebbene a quell'ora sarebbe stato ben difficile trovare qualcuno in giro in cerca del bicchiere della staffa.
Luca, che conosceva bene il suo amico e aveva un notevole tatto, accompagnò le prime due birre con chiacchiere sui fatti suoi, il suo lavoro di psicologo presso la ASL della città, unico agglomerato di una certa importanza nel raggio di decine di chilometri, le sue beghe sentimentali, calcio e pettegolezzi.
Alfredo gli fu grato della delicatezza e, un po' per le birre un po' per la riscoperta di sensazioni quasi dimenticate, stava meditando se mettere a parte Luca degli assurdi avvenimenti dell'ultimo mese: da una parte avrebbe avuto piacere di condividere tutto con qualcuno, e chi meglio del suo migliore amico? Dall'altra però, sapeva bene che quello che aveva da raccontare era a dir poco incredibile, e non era sicuramente saggio parlarne con uno strizzacervelli, nonostante l'amicizia che li legava. Tuttavia Luca, oltre che psicologo, era anche un grande appassionato di esoterismo, conosceva miti e leggende dai quattro angoli del globo e collezionava libri esoterici anche molto antichi. Quindi forse, in qualche maniera avrebbe potuto aiutarlo...
“Tu invece, come te la passi?” Luca interruppe i pensieri dell'amico con la più prevedibile delle domande.
Alfredo bevve un lungo sorso, posò il bicchiere, e, tenendo gli occhi fissi sul tavolino, prese a giocherellare con il posacenere.
Stava per rispondere, quando la porta si aprì.
“Scusatemi ragazzi, ho bisogno di bere...”. Era Michele, uno dei carabinieri della caserma locale, unico avamposto dello stato in quell'ammasso di casette dimenticato da dio e dagli uomini.
“Ciao Michele, veramente sarebbe chiuso... noi siamo qui solo perché Franco ci ha fatto un favore...” rispose Luca.
“Lo so che è chiuso... ma ne ho troppo bisogno”. Rispose il carabiniere, impeccabile nella sua divisa ma visibilmente stravolto. Raggiunse il retro del bancone e, senza dare tempo ai ragazzi di rispondere, aveva già riempito e vuotato e riempito di nuovo un bicchiere di whisky.
“Ehi... ma cosa... cosa è successo?” chiese Luca, era evidente che a quel pover'uomo era successo qualcosa. Paonazzo in viso, sudato, gli occhi stravolti, i capelli grigi vistosamente arruffati, per quanto permetteva il suo taglio da militare. Ormai prossimo alla pensione, non aveva decisamente vissuto una vita carica di 'emozioni forti'.
L'uomo vuotò rapidissimamente un altro bicchiere, il terzo, in neppure un minuto, eppure ne sarebbero serviti almeno altrettanti per tranquillizzarlo, così a occhio.
“Hanno ammazzato la vecchia Sterina”, disse d'un fiato, vuotando il quarto bicchiere.

Interludio

Gorka guardò quell'immenso camino. Non era la prima volta che entrava in quel salone, tuttavia l'enormità di quel camino lo colpì come puntualmente avveniva ogni volta che se lo trovava di fronte. Alto da far entrare una persona di ragguardevole statura in piedi, senza problemi, e largo da ospitarne almeno quattro–cinque, una accanto all'altra. Ai due lati del focolare stavano due sedili di pietra. Su uno di questi, alla destra del fuoco, stava Penna–rossa.
Gorka ignorò la solita processione di uomini e donne, alcuni dei quali risucchiati tra fiamme azzurrognole da eleganti porte di legno massiccio, che lo circondava. Guardava fisso il suo amico.
Con indosso un rozzo pantalone mimetico da militare sotto una giacca settecentesca tutta strappata e sdrucita Erlik decisamente stonava con quell'ambiente elegante, tuttavia non sembrava preoccuparsene o rendersene conto, intento com'era a fumare nervosamente una sigaretta.
Una volta arrivato al filtro la gettò nel fuoco. Dopo di che prese tra le mani un tizzone acceso e lo usò per accendersene un'altra, per poi rigettarlo nel fuoco.
“Nervoso?” Gorka cercò di rompere il ghiaccio.
“No” rispose, gelido, Penna–rossa.
Gorka si stupì per la rabbia dell'amico. Tremava tutto, quasi impercettibilmente. Lo guardò meglio, sarebbe sembrato innaturalmente immobile, non fosse stato per la penna che traballava tra i lunghi capelli neri. “Cos'è successo?”
“Sta succedendo di nuovo Gorka” disse l'altro, rapido, come per togliersi un peso.
“Cosa?”. Chiese sapendo già la risposta.
“Lo sai benissimo”, tagliò corto Penna–rossa.
“Lo ha... lo ha...”
“Già. Lo ha fatto di nuovo. Ancora non è successo l'irreparabile ma credo che ormai manchi molto poco”.
“Ma... dobbiamo fare qualcosa...” disse tremando di terrore l'ex rockettaro, ora vestito come un damerino del '700, con tanto di parrucca. Sulla sua giacca però, faceva bella mostra una spilla a forma di Fender Statocaster.
“E cosa vorresti fare?” ruggì l'amico “Stavolta ci siamo dentro anche noi!”.
“Ma... noi non abbiamo fatto niente di male...”
“E qui ti sbagli Gorka. Quello che noi abbiamo fatto è tollerato. Ma non vuol dire che sia permesso” si fermò, tirando una lunga boccata dalla sua sigaretta. “Se succede qualcosa, ci andiamo di mezzo pure noi”.
“Allora... cosa facciamo?” chiese Gorka spaventato.
“Non possiamo fare nulla” rispose l'altro, terribilmente serio. “Lei è più potente di noi due messi insieme, e ormai è sfuggita al nostro controllo”.
“Potremmo intervenire su di lui... sul ragazzo...”
“A dirla tutta ci sto provando ma... non so se funzionerà”.
“Perché non dovrebbe funzionare? E poi come... come sarebbe a dire che ci stai provando?”
“Gli ho ordinato di non andare più dalle parti della casupola”.
L'altro lo interruppe “Ma sei matto? E noi come facciamo?”
“Noi possiamo benissimo continuare senza di lui, lo sai bene”.
“Sì ma...”
“Nessun ma!” gridò l'altro. Le pareti del salone tremarono, e qualcuno dei partecipanti all'assurda processione che aveva luogo in quel salotto si girò stupito a guardare quel che succedeva. “Neanch'io sono contento, ma questo adesso non è un problema. La verità è che questa storia deve finire il più presto possibile. E comunque Alfredo vedrà un'altra volta la sua donna”.
“E tu come lo sai?”
“Gli ho promesso un ultimo incontro, ma gli ho detto che saremo noi a cercarlo, per tenerlo buono e prendere tempo. Per nessun motivo dovrà più avvicinarsi alla casupola”.
“E... e quando ci sarà quest'incontro?”
“Non lo so Gorka, dobbiamo pensare a qualcosa, a lui non basterà certo un ultimo incontro, e ormai, con Lamiah dalla sua parte, può benissimo fare a meno di noi. Dobbiamo muoverci, prima che lui lo scopra”.
“E allora cerchiamo la sua donna, portiamola da lui e chi se ne frega!”.
“Non basterebbe. Abbiamo bisogno di qualcosa che lo tenga lontano per sempre dalla casupola”.
“Allora ammazziamolo e basta!” Gorka era quasi isterico, sull'orlo delle lacrime.
“Idiota – ringhiò l'altro – sai benissimo che saremmo scoperti e puniti in modo terribile. Forse però..” la frase fu troncata da una terribile scossa, come in un terremoto di inaudita violenza. Durò pochissimo, ma bastò ad aprire vistose crepe nelle pareti del salone. Gorka cadde a terra, si alzò rapidamente e vide che l'amico era caduto nel fuoco. I vestiti e i capelli cominciavano a bruciare, ma lui restava immobile, rannicchiato in posizione fetale, lo sguardo fisso nel vuoto.
“Erlik! Tirati su, stai bruciando!”
“Gorka... – rispose l'altro, indifferente alle fiamme che ormai lo avvolgevano tutto – è terribile... terribile... lei... lei... ha ucciso!”
Migliaia di anime gridarono all'unisono, mentre un esercito di guardiani armati di picche e bastoni invadeva la sala.