mercoledì 26 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Ottava


[...]

“Che c'è, non hai mai visto una donna nuda?” disse Lamiah, lasciandosi guardare compiaciuta.
Alfredo era lì immobile, con la bocca spalancata. Farfugliò qualcosa senza riuscire a comporre nessuna frase intellegibile, allora lei lo interruppe.
“Immagino di sì, però è molto che non ti capita, giusto?” chiese lei, sardonica.
“Non è quello...” in realtà era completamente estasiato, però fu abbastanza pronto da inventare un'obiezione plausibile. “La prima volta che ti ho visto eri... eri... completamente diversa... non sembravi nemmeno... nemmeno...”
“Nemmeno umana.” lei lo interruppe, trattenendo a stento la rabbia.
“No, no...” Alfredo cercò di rimediare, terrorizzato davanti a quegli occhi fiammeggianti, avvampatisi in pochi secondi, “non intendevo...”
“Invece intendevi. E avevi anche ragione. Ma non ti preoccupare, la mia rabbia non è rivolta a te, anzi, tu in qualche maniera mi hai aiutato”.
“Io? E come avrei potuto? Con quelle poche cose che ti ho portato forse?”
Lei rise, di gusto. Era incredibile come riuscisse a cambiare umore e atteggiamento repentinamente, come anche Penna–rossa e l'altro tipo, del resto. “Quelle aiutano, ma per me, nello stato in cui ero, serviva ben altro. E tu sei riuscito a darmelo”.
Alfredo non credeva a quello che sentiva. Davvero non poteva immaginare come avesse potuto aiutare quella ragazza della cui natura paranormale era sempre più convinto. Anzi, era sicuro che fino a quel momento lei e i suoi due amici non avessero fatto altro che aiutare lui, per qualche oscuro motivo che a lui era sempre sfuggito e su cui non aveva mai riflettuto.
“È stata la tua forza vitale a riportarmi al mio reale aspetto, e a ridarmi coscienza di me stessa”. Disse interrompendo il flusso dei pensieri di Alfredo, più che mai caotico a dire il vero. “Quando sei arrivato, l'altra notte – continuò – eri così carico di speranza, rabbia, amore, e la forza delle tue emozioni mi ha aiutato a compiere in poche ore un cammino che avrebbe richiesto molto tempo in più”.
“Ma... di quale cammino parli? I tuoi amici l'altra sera avevano detto che eri stata via... ma se eri qua, evidentemente eri già tornata... no?”
“Ero tornata sì, ma non del tutto. Il mio è stato un viaggio molto lungo.”
Alfredo non capiva più nulla. Era in un luogo da favola, davanti a una donna bellissima completamente nuda che gli diceva cose incomprensibili dopo essere sfuggito a una banda di arcieri che sembravano usciti da un fumetto fantasy e per di più aveva appena rivisto per la seconda volta la sua ragazza morta mesi prima.
“E non ero partita di mia volontà” concluse la ragazza, adesso cupa e triste.
“E allora perché....”
“Perché mi hanno obbligata, stupido!” sbottò lei “Il mio viaggio era una punizione!” e tacque.
Alfredo, imbarazzato dal suo silenzio, cercò di cambiare discorso.
“Però poi sono arrivato io... e in un modo che ancora non ho capito ti ho aiutato, giusto?”
“Come sarebbe a dire che non hai capito? La tua bella non ti ha detto niente?”
“No... non siamo stati molto assieme” respingendo un singhiozzo “Il tuo amico l'ha portata via quasi subito.”
“Quale amico?”. Quasi gridò lei, afferrandogli un braccio.
“Quello.. quello con la penna rossa in testa. È arrivato a un certo punto, mentre Gabriella aveva cominciato a piangere, e ha detto che eravamo stati insieme abbastanza... e mi ha detto che potrò rivedere Gabriella una sola volta ancora, per dirle addio...”
“Quel bastardo è sveglio, forse anche troppo, e forse sta capendo qualcosa.... d'altronde è abbastanza potente da sentire se i guardiani si muovono o meno...” parlava tra sé e sé, fissando un punto lontano sopra la spalla sinistra di Alfredo.
“Che cosa c'è da capire?”
“Per caso gli hai detto che ci eravamo già visti?” come se non lo avesse sentito.
“No ma...”
“Ma lui ha capito vero?”
“Sì... credo di sì” pensò che fosse meglio non dire che lui in realtà stava per rivelare il loro precedente incontro.
Lei sospirò. Poi mosse un passo verso di lui. Ora poteva sentire chiaramente la pressione dei suoi seni duri sul petto e il suo respiro sul collo. Lo baciò, ma non come lo aveva baciato l'altra volta. Fu un bacio, caldo, appassionato, che Alfredo non ricambiò ma gustò fino all'ultimo istante, assaporando il suo respiro e la sua lingua.
“Adesso devi andare, non puoi più stare qui”. Disse lei.
Alfredo ubbidì, ancora inebetito dal bacio.
“Quando... quando posso tornare?”
“Quando tornerai qui lo deciderò io. Dalla tua bella... puoi provare quando vuoi. Non dare ascoolto a quel mentecatto, gli piace dare ordini ma non conta nulla. Poi ti spiegherò come diventare più potente di lui. Ora vai”. Disse lei, indifferente, e si reimmerse nel lago.
Alfredo uscì e si avviò verso casa.
Non riusciva a pensare a nulla, l'unica cosa che poteva fare in quei momenti, era gustare le ultime gocce di quel sapore meraviglioso che ancora gli rimanevano in bocca.



continua...

lunedì 24 settembre 2007

Il parcheggio

Qualche sera fa, dopo una buona mezz'ora di giri a vuoto, sono andato a parcheggiare in un enorme parcheggio sotterraneo a pochi metri da casa mia di cui quasi nessuno conosce l'esistenza. Mi sono ritrovato da solo in un'immensa distesa di cemento, illuminata qua e là da qualche fredda luce al neon. E ho trovato la situazione decisamente inquietante...

Mario sbuffò fragorosamente, mentre per l’ennesima svoltava attorno l’edificio della Scuola Elementare, completando così l’ennesimo giro – il decimo? Forse anche di più – per le strade del quartiere.
Oltre che stanco cominciava a sentirsi anche piuttosto nervoso: non aveva percorso settecento chilometri per poi passare la notte a girare per il quartiere alla ricerca di un buco dove infilare la sua macchina.
All’improvviso, tra una station wagon e un SUV parcheggiate ‘a spina’ gli parve di scorgere un buco: qualche nottambulo che cominciava i suoi giri forse, o qualche amante clandestino di ritorno dal/la legittimo/a consorte.
Diede gas, in un istante fu lì. Ora una rapida manovra e finalmente sarebbe andato a dormire, e non era nemmeno troppo lontano da casa!
Sarebbe stato perfetto, se solo lì, tra quei due macchinoni non ci fosse stata la solita, odiosa Smart, visibile solo da pochi metri a causa dei due giganti ai suoi lati.
Trattenne una bestemmia e ripartì.
Solito giro: bar, pizzeria, libreria, prima a destra che poi la strada chiude.
Ma… all’improvviso, come un’oasi nel deserto, bella rotonda, bianca su fondo blu, una P di almeno mezzo metro, sotto, una freccia che indicava di andare dritto e il cartello 666 m.
666 metri? Cos’era? Uno scherzo della stanchezza? Ma no, il cartello era lì, indicava la direzione della vecchia chiesa sconsacrata, e in effetti qualcuno gli aveva parlato di un parcheggio sotterraneo proprio sotto la vecchia chiesa. Non ci andava mai nessuno, questo gli avevano detto, al bar o all’edicola, non ricordava. Però c’era, era enorme e pubblico. Dopo quasi tre quarti d’ora di giri valeva la pena di provare. Ma quell’indicazione? 666 metri? Mah, forse un operaio del comune appassionato d’horror e con un dubbio senso dell’umorismo.
Percorse quei 666 metri a passo d’uomo, magari trovava un parcheggio senza per forza dover scendere sotto la chiesa.
Da anni utilizzava solo la macchina per girare in città e gli era capitato un sacco di volte di mollarla sottoterra. Stavolta però si sentiva stranamente a disagio. Giravano strane voci su quella chiesa, sebbene si trovasse quasi in centro e in uno dei quartieri più popolati di Roma.
Arrivò all’imbocco della discesa che l’avrebbe portato al parcheggio senza trovare uno straccio di buco per mollare prima la sua macchina. All’apparenza era tutto normale, d’altronde non poteva certo aspettarsi un antro fiammeggiante pronto a inghiottire lui e il suo fedele maggiolone.
Si stupì di non aver mai notato prima quella rampa e quelle indicazioni. Ma d’altronde da quando era andato a vivere lì aveva sempre condotto una vita piuttosto frenetica, e quelle vie le batteva poco, giusto quando la ricerca di un posteggio notturno ce lo portava, e insomma, la sua distrazione era proverbiale.
Ingranò la prima e imboccò la rampa. Tutto normale, apparentemente. Dopo una discesa di una decina di metri circa, sulla destra di apriva un enorme parcheggio di cemento. Quadrato, cinquanta metri almeno per lato, percorso in lungo e in largo da file di colonne anch’esse di cemento. Le colonne formavano dei quadrati tra cui erano disegnati i posti auto. In ogni quadrato ce ne entravano comodamente due, illuminati da lampade al neon fredde ma efficaci.
Incredibile. Un parcheggio così grosso completamente vuoto. Quando ogni notte gli abitanti della zona erano costretti a lunghissimi e spesso infruttuosi giri.
Dalla parte opposta al punto da cui era entrato gli parse di vedere un’altra uscita. Si diresse lì, spedito, in quanto uscendo da lì sarebbe stato più vicino a casa, e adesso voleva solo arrivare in camera sua il più presto possibile.
Parcheggiò contro il muro, scese e si diresse verso l’uscita. Imboccò un piccolo corridoio a ‘elle’ al termine del quale sarebbe uscito, o almeno così credeva.
Stavolta la bestemmia fu più veloce del suo autocontrollo: l’uscita era chiusa con un pesante cancello di metallo. Pensò di risalire in macchina e parcheggiare dalla parte opposta, vicino l’ingresso da cui era entrato. Poi cambiò idea. Si trattava di una cinquantina di metri circa, meno di un minuto di camminata, e dopo ore e ore al volante sentiva il bisogno di sgranchirsi le gambe.
Pochi passi e le luci al neon presero a tremolare, come per un calo di tensione.
Il tremolìo durò pochi secondi, ma quando cessò del tutto alcune delle luci si erano spente. Poco male, pensò Mario, di luce ce n’era ancora a sufficienza, nonostante molti punti del parcheggio fossero rimasti completamente al buio. Eppure cominciava a sentire una strana inquietudine.
Mario si girò per tornare verso la macchina. Ormai però era più o meno a metà strada, a conti fatti ci avrebbe messo di più ad arrivare alla macchina, aprire, salire, mettere in moto e arrivare dalla parte opposta. E poi il suo fondoschiena gli mandò una dolorosa richiesta di proseguire a piedi.
Sospirò e riprese a camminare.
Due passi, forse tre, poi sentì un rumore alle sue spalle.
Si girò.
Nessuno, eccetto la sua macchina, in fondo.
“IHIHIH”
Una risata!
L’aveva sentita, ma intorno a lui non vedeva nessuno. Qualche ragazzino forse, magari nascosto al buio.
Non aveva nessuna voglia di scherzare, ma neanche di farsi prendere in giro da un deficiente. Così riprese a camminare senza aumentare l’andatura. Cioè, un po’ allungò il passo, ma non troppo per non farsi scoprire.
L’uscita adesso era molto più vicina, dieci, quindici metri al massimo.
“OHOHOH”
Un’altra risata, diversa da quella di prima!
Si girò di nuovo, non vide nessuno, ma per forza doveva esserci qualcuno.
Valutò qualche secondo l’ipotesi di andare nel buio a mollare un paio di sberle ai simpaticoni che da lì si prendevano gioco di lui. In fondo era alto più di un metro e novanta, aveva sempre fatto sport e non aveva certo paura di uno o due cretini nascosti in un parcheggio.
Mentre valutava la possibilità, un nuovo tremolìo delle luci. Come prima durò pochi istanti, ma diversamente da prima spense un bel po’ di luci. Praticamente restarono accese solo quella sopra la sua macchina e quella davanti l’uscita. Il resto del parcheggio ora era immerso nel buio.
Sospirò con rabbia e si mosse verso la luce. Erano solo pochi metri, a breve sarebbe stato fuori e non sarebbe mai più tornato a parcheggiare lì sotto.
Un passo nel buio più totale e urtò qualcosa. Poi un rumore sordo gli disse che quel qualcosa che aveva urtato era caduto a terra.
Qualcosa o qualcuno?
Avrebbe giurato infatti di aver urtato una persone.
Stavolta cominciava davvero ad avere paura.
Tirò fuori l’accendino dalla tasca e si accese una sigaretta.
Quei pochi attimi di luce dalla fiamma del suo zippo bastarono a fargli notare qualcosa.
Riaccese e ciò che vide gli fece spezzare la sigaretta tra i denti per la paura.
Era circondato da strani esseri, a non più di tre metri da lui. Avanzavano lenti, incerti su gambe scheletriche coperte da brandelli di stoffa. I loro volti cadevano a pezzi mentre camminavano, a passi di pochi centimetri alla volta, le mani ossute tese in avanti.
Si girò per correre alla macchina e si trovò davanti due orbite vuote, gli occhi di quell’essere pendevano sulle guance scarnificate appesi ancora per qualche filamento vischioso. Al posto della bocca un’apertura nera priva di labbra da cui faceva capolino un grosso ratto nero.
Mario gridò di terrore, spinse via gli zombie più vicini a lui e si lanciò verso l’uscita.
Un attimo prima di mettere il piede fuori si voltò per vedere se lo stessero seguendo.
Neanche il tempo di mettere a fuoco ciò che accadeva dietro di lui.
Cadde all’indietro con un dolore lancinante alla testa.
Là dove prima c’era l’uscita adesso c’era un muro di cemento contro cui aveva battuto.
Era impossibile!
L’uscita era lì un attimo prima, ora c’era solo un muro ruvido e freddo!
E gli zombie ormai erano dietro di lui.
“Mario! Corri! Vieni qui!”
Guardò verso quella voce.
All’angolo opposto del parcheggio, in mezzo a un cerchio di candele accese, una ragazza lo chiamava con grandi gesti.
“Fai presto! Loro non possono entrare nel cerchio sacro! Sbrigati!”.
Mollò un pugno a uno zombie che ormai era a meno di mezzo metro di lui. Lo colpì in pieno viso e sentì perfettamente la testa staccarsi dal collo, cadendo a terra con un rumore viscido.
Prese a correre buttando giù a spallate tutti gli zombie che gli capitavano a tiro. Per sua fortuna erano lenti e deboli, e riuscì a superarli senza troppa fatica.
Corse come non aveva mai corso in vita sua, dritto verso quel cerchio di candele davanti a lui.
Per un attimo, mentre correva, pensò che anche la comparsa di quella ragazza era ben strana, forse era alleata degli zombie e lui ora stava solo per cacciarsi in una trappola ancor più grossa.
Si fermò a pochi centimetri dalle candele.
La ragazza tese le mani verso di lui.
“Presto Mario… entra nel mio cerchio… presto… loro qui non possono entrare…”
La sua voce era suadente, ma aveva qualcosa di strano. Era lontana, come se provenisse dalle viscere della terra.
Decisamente Mario non si fidava. Poi una mano di uno zombie sulla spalla gli fece passare tutti i dubbi, e con un balzo entrò nel cerchio.
Si voltò. Come aveva detto la ragazza, gli zombie non lo seguirono. Rimasero pochi centimetri al di là delle candele tendendo le braccia verso di lui ed emettendo terribili versi gutturali.
Mario sospirò, e guardò la sua salvatrice. Era bella: con lunghi riccioli rossi che le scendevano fino alla vita e occhi verdi come il mare, sembrava una fata delle favole.
Guardò Mario sorridendo. “Non ti preoccupare, io sono qui apposta per salvare dagli zombie quelli come te, che non credono alle leggende della vecchia chiesa. Presto farà giorno, e tu potrai uscire di qui. Ora abbracciami”. Così dicendo si avvicinò a Mario, tendendo le braccia verso di lui.
Mario la guardò rapito. Era davvero bella, e poi quegli occhi… così verdi… così profondi… per lui adesso al mondo c’erano solo quegli occhi. Si lasciò abbracciare, inalò l’odore pulito di quei capelli morbidi, assecondò le forme morbide di quel corpo che si adagiava al suo.
Poi all’improvviso, il dolore.
Tentò di gridare, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo e uno spruzzo di sangue.
Allontanò da sé la ragazza portandosi le mani al collo cercando di bloccare il fiume di sangue che usciva da dove lei lo aveva morso.
Mentre la vista si appannava la vide mutare… il volto si allungò in un muso da predatrice, i capelli la avvolsero tutta come una pelliccia di belva, e dalla bocca ghignante si intravedevano zanne come non Mario non ne aveva mai viste.
“Povero Mario – ringhiò – almeno adesso avrai una morte rapida!”
Lo afferrò per i capelli quasi strappandogli la testa. La ferita alla gola si allargò e la bestia ci tuffò il muso succhiando rumorosamente il sangue.
Andò avanti per pochi minuti emettendo versi orribili, mentre gli zombie stavano ancora tutti all’esterno del cerchio. In silenzio però, come in attesa.
Quando ebbe finito, la belva afferrò il corpo di Mario per una gamba, lo fece roteare in aria e poi lo lanciò nel buio, ben lontano da dove si trovavano gli zombie.
Questi si affrettarono, per quanto gli permettevano le loro misere condizioni, e la belva si stese nel suo cerchio di candele, mentre piano piano ridiventava una bellissima ragazza.
Dopo un po’ le si avvicinò uno zombie, tenendo tra le mani un pezzo di carne tondo e sodo, che era stato una natica di Mario.
“Ehi tu – disse – potevi lasciarci un po’ di sangue! Adesso questo è diventato duro come una vecchia ciabatta!”
E poi addentò famelico il pezzo di carne che aveva tra le mani.

martedì 18 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Settima




[...]


Gabriella era lì, in piedi, vestita di bianco, un lungo abito che le arrivava fino ai piedi nudi. Vivida e netta, consistente - come era stata per pochi attimi prima che gliela portassero via per la seconda volta, un mese fa - diligentemente ferma a pochi metri dall'inizio di quel bosco che per lei era tabù, almeno stando a quanto gli aveva detto Penna-rossa.
“Ciao piccolo” ripetè, come faceva sempre quando lui era lento a svegliarsi.
“Ciao piccola” rispose lui, muovendosi per raggiungerla. Stavolta soffocò in tempo l'istinto di abbracciarla, fermandosi a non più di due passi da lei.
“Sei... sei bellissima” disse commosso.
“Tu di più” rispose lei sorridendo, resuscitando un gioco di una vita fa.
“Come... come stai?” disse lui, titubante e incerto tra le mille domande che avrebbe voluto porle.
“In pace” fu la risposta.
Alfredo rimase interdetto.
“Cosa vuol dire? Stai... stai bene?”
Lei rise prima di rispondere “Sì, sto bene”
“Perché ridi?” si sentiva veramente mortificato.
“Perché mi sembra una domanda così strana... cioè – prese a giocare con i capelli che le scendevano sulle spalle, come era sempre stata solita fare – sono morta... come dovrei stare?”
“Ma mi hai appena detto che stai bene!” rispose Alfredo, d'istinto.
“Sto bene... sì, se fossi viva direi che sto bene... ecco... ma ora... è diverso...” continuava a tormentare i suoi splendidi capelli biondi. In un'altra vita sarebbe stato sintomo di una certa inquietudine.
“In che senso è diverso?”Alfredo maledisse la sua innata curiosità: sapeva per esperienza che il tempo a loro disposizione era limitato e che avrebbe dovuto sfruttarlo al meglio, anziché perdersi in stupide disquisizioni.
Anziché rispondere, magari piccata come avrebbe fatto
in vita se incalzata con una simile insistenza, lei scoppiò in lacrime. Lacrime dure, piene, pesanti, lacrimoni veri e propri. Scavavano solchi liquidi sul suo volto e, soprattutto, nel cuore di Alfredo.
Spiazzato da quella reazione, lui provò a rimediare: “Ehi... non piangere piccola... siamo insieme... conta solo questo...”
“Qui ti sbagli di grosso.”
La frase di per sé era innocua. La voce però era di Penna-rossa.
Alfredo stentò a riconoscerlo:
l'aveva conosciuto seminudo e pelato, ora se lo ritrovava davanti vestito di tutto punto. Una giacca lunga, di velluto, con grossi bottoni che sembrava provenire direttamente dal '700, e un paio di pantaloni militari con anfibi, che facevano molto soldato USA in Vietnam. Il viso incorniciato da lunghi capelli neri che arrivavano a lambire le spalle. Non fosse stato per la voce, appunto, e per la solita penna rossa stavolta infilata tra i lunghi capelli, Alfredo non l'avrebbe mai riconosciuto.
“Cosa dici? Non ho fatto niente che tu mi abbia vietato”. Gridò Alfredo, in preda alla rabbia più nera.
“Qua le regole le faccio io – rispose Penna-rossa, gelido – e dico che per oggi vi siete visti abbastanza”.
Alfredo si sentì morire. “Ma che dici! È appena arrivata, stavamo solo parlando... dacci ancora un po' di tempo...”
“Hai ragione. Lei è appena arrivata, e voi state solo parlando. Ma io credo che sia meglio se lei ora torna da dove è venuta”. Schioccò le dita e Gabriella sparì.
Alfredo scoppiò in lacrime. Tutta la tensione di quelle ultime ore esplose violentemente in singhiozzi profondi, accompagnati da grosse lacrime che gli bagnavano il viso.
“Perché piangi? In fin dei conti hai appena rivisto la tua amata Gabriella. Dovresti considerarti fortunato”.
Alfredo lo guardò, tra le lacrime riusciva a vedere solo un contorno sfocato. “Sì ma... è durato troppo poco... potevi aspettare ancora un po'...”
Penna-rossa per tutta risposta gli diede una sberla. Alfredo rotolò su se stesso andando a sbattere contro un albero.
“Non permetterti mai di dirmi cosa devo o non devo fare”. Ringhiò il tipo.
“Ok, ok... non lo farò di più... però allora... dimmi tu come devo fare... se voglio stare con lei più a lungo...”
“Non dipende da te. Decidiamo io e i miei amici. Tu puoi solo venire qui e farci contenti, portando le cose che ti chiediamo. A proposito, cos'hai con te?”
Alfredo prontamente estrasse un pacco di cd che aveva portato per lo strano amico di Penna-rosa e della ragazza: Led Zeppelin, Deep Purple e naturalmente Lynyrd Skynyrd. Pensava potessero bastare.
“Ti avevo chiesto dell'altro, ricordi?” disse il tipo, dopo aver guardato i cd.
“Sì mi ricordo ma io ho già...”
“Già cosa?” Di nuovo lo sguardo infernale che lo aveva inchiodato un mese prima.
“Ho già... ho già....”
“Hai rivisto
Lamiah?!?” una frase a metà tra un'affermazione e una domanda.
“No... cioè... sì... ma non volevo... in realtà...”
“Tu non ti rendi conto di quello che hai fatto”, la voce ora era bassa, quasi un brontolio. Ma emanava vibrazioni così negative da far tremare tutti gli alberi che Alfredo riusciva a vedere.
“No... io non pensavo di fare nulla di male... però...” mentre parlava vide Penna-rossa tirar fuori la sua pipa, e decise di provare il tutto per tutto, anche se sul momento quella che aveva appena avuto gli parve un'idea di una stupidità inaudita.
“Ho queste per te” disse frettolosamente, porgendogli le sigarette che aveva con sé, un pacchetto quasi nuovo di Gauloises.
Penna-rossa spalancò gli occhi: “Tabacco francese! Dammelo!”
Alfredo ubbidì. Lo vide accendersi una sigaretta famelico e consumarla in pochi secondi per poi prenderne un'altra.
“Posso portartene ancora”, disse. Penna-rossa lo guardò per qualche istante, la sigaretta irrealmente ferma al centro della sua bocca. Quello strano essere stava riflettendo. Alfredo pensò che stesse decidendo cosa chiedergli per le sue prossime visite.
“No.” rispose gelido, la sigaretta attaccata al labbro inferiore. “Tu qui non devi venirci più”.
Le gambe di Alfredo cedettero, facendolo cadere di schianto sulle ginocchia. “Cosa... cosa stai dicendo? Io ho fatto sempre come mi avevi detto tu... perché?”
Penna-rossa sospirò, consumando mezza sigaretta in un istante. “Perché la cosa sta diventando pericolosa Alfredo” disse tranquillo, con tono quasi paterno “e tu non hai idea delle forze che si potrebbero risvegliare”.
“Non m'importa nulla! Io voglio rivedere Gabriella!” gridò Alfredo balzando in piedi.
Penna-rossa rimase impassibile, per nulla spaventato da quello scatto. “Va bene, la vedrai ancora una volta, ma sarà l'ultima, purtroppo. Però non venire più qui, per nessun motivo” le ultime parole erano state un ringhio indefinibile, accompagnate dallo sguardo rosso fuoco che Alfredo conosceva bene.
“Ma allora... come farò a...”
“Verrò ad avvisarti io”.
“Quando?”
“Domani, tra un mese, tra un anno, tra cent'anni. Non lo so, sappi solo che verrò, Erlik non manca mai alla parola data”. E sparì in uno sbuffo di fumo.
Alfredo resto lì a fissare il vuoto per un tempo indefinibile, finché, provato da tutte quelle emozioni, decise di avviarsi verso casa: aveva bisogno di riflettere, in cuor suo non poteva accettare l'idea di perdere Gabriella un'altra volta, però prima di prendere una qualsiasi decisione doveva dormire, mangiare, riposarsi.
Si avviò verso casa, meditando se fosse il caso di tornare lì non appena fosse calato il buio, quando sentì uno strano rumore, e vide uno stallone con una stella bianca sul muso venirgli incontro.
Non aveva dubbi, era la stessa bestia che cavalcava la ragazza, che evidentemente si chiamava Lamiah, poco prima, quando lo aveva salvato da morte quasi sicura.
Il cavallo lo raggiunse e si chinò davanti a lui, guardandolo fisso con i suoi immensi occhi neri. Alfredo non sapeva come né perché, ma quell'animale lo stava invitando a saltargli in groppa.
Dopo un attimo di esitazione decise di ubbidirgli.
Tempo un istante e la bestia si lanciò al galoppo in mezzo agli alberi, e a lui non restò che aggrapparsi alla criniera e pregare per non scatafasciarsi al suolo.
Il galoppo durò pochi minuti. Giusto il tempo di imboccare una grotta di cui Alfredo ignorava l'esistenza e di sbucare davanti un lago sotterraneo, illuminato da una flebile luce azzurra.
In acqua, bellissima e completamente nuda, Lamiah.
Alfredo scese dal cavallo e rimase immobile a guardare quel corpo bellissimo e flessuoso che muoveva verso di lui.


continua...

venerdì 14 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Sesta

Io l'avevo detto che s'ingarbugliava...

[...]

Penna- rossa sedeva su uno spuntone di roccia terribilmente appuntito. Avrebbe dovuto provare un dolore a dir poco lancinante a stare appoggiato lì, a peso morto. Eppure, se così era, decisamente non lo dava a vedere. Vestito di una lunga tunica scura era tutto intento a rigirarsi tra le mani la torcia che aveva sottratto ad Alfredo la sera del loro primo incontro. In testa, tra i capelli stavolta tagliati molto corti, la solita penna rossa.
Attorno a lui una lunghissima e apparentemente interminabile fila di persone che procedeva ordinatamente nella stessa direzione. Erano una moltitudine decisamente eterogenea per sesso, età, razze e abbigliamento. Ma ciò che veramente saltava subito all'occhio era la loro diversa consistenza: alcuni sembravano quasi impalpabili, altri pieni di vita. Nel mezzo innumerevoli sfumature.
Camminavano lungo un sentiero delimitato da un lato da un'interminabile parete di roccia che sembrava giungere fino al cielo, lungo cui ogni tanto si aprivano delle minuscole grotte. Ogni tanto, al passare di una persona e senza apparente soluzione di continuità, da queste grotte usciva una strana luce azzurrognola in cui spariva il 'viandante' che in quel momento si trovava a passare da lì, senza suscitare reazione alcuna nel resto della folla.
Penna-rossa non sembrava curarsi più di tanto di loro, uno sguardo fugace ogni tanto e nulla di più.
All'improvviso dalla fila uscì il suo amico, il terzo del gruppo che aveva incontrato Alfredo davanti la casupola. Anche lui indossava una tunica scura, su cui però spiccava un grosso e pacchiano ciondolo dorato a forma di chitarra.
Ehi Erlik, che cosa fai?”. Chiese il nuovo arrivato all'amico.
L'altro sospirò prima di rispondere “Rifletto”. Una pausa di qualche secondo, che l'altro tipo si guardò bene dall'interrompere. “Rifletto su quest'oggetto: gli umani sono ben strani. Inventano una miriade di cose senza rendersi conto che le loro esigenze sono puramente materiale e... come dire... temporanee... potrebbero ottenere molto di più se solo guardassero dentro di loro, anziché al di fuori.”
Il tipo con il ciondolo annuì serio. In realtà non sopportava i pistolotti filosofici del suo amico, ma in quel momento non aveva voglia di discutere. Un crepitìo nell'aria ruppe il silenzio: un'apertura aveva risucchiato un altro viandante.
Me la fai tenere un po'?” indicando la torcia.
Penna-rossa, o meglio Erlik, esitò un attimo, poi allungò l'oggetto all'amico con una scrollata di spalle.
L'altro prese la torcia tra le mani e iniziò a sospirare socchiudendo gli occhi. “È così... così... carica...”
Già – interloquì Erlik – ha assorbito le energie di quel ragazzo, Alfredo, quella notte”.
Bel tipo vero?” chiese l'amico, che ancora si passava la torcia tra le mani.
È carico di energia... di emozioni... rabbia, disperazione... amore...”
Fa proprio al caso nostro no?” stavolta il rockettaro non si fece scrupoli a interrompere l'amico.
Non è così semplice Gorka – rispose Erlik, grave – per noi sì... ma sono preoccupato per Lamiah”.
Perché? L'ho vista poco fa, mi sembrava in ottime condizioni”.
Appunto. 'Troppo ottime', direi. Ti ricordi come stava quando l'hanno portata da noi?”.
Certo che me lo ricordo. Ma si sapeva che prima o poi si sarebbe ripresa, no?”.
Sì ma non così in fretta – si fermò un attimo, giusto il tempo di accendere la sua pipa – ha assorbito tutte le emozioni di quel ragazzo”.
E cosa c'è di male? - Gorka lo interruppe bruscamente – non l'abbiamo fatto anche noi?”
Sì ma è diverso. Noi lo facciamo per puro piacere. Lei... non so...”
Andiamo Erlik, hai visto come era ridotta? È normale che tutta quell'energia le abbia fatto quell'effetto. Io non ci vedo niente di strano!”.
Non dico questo ma... oh al diavolo Gorka, tu quella volta non c'eri... non puoi sapere!”
Credi che ci sia il pericolo che...”
Sì. Lo temo. E non so cosa potrebbe succedere se...” si fermò, guardando nel vuoto.
L'amico ruppe prontamente il silenzio che si era creato. “Non credo che ne abbia già le forze”.
E chi può dirlo – ringhiò Erlik, la penna rossa fu scossa violentemente dai movimenti del suo capo – lei è la più potente di noi, e l'esilio potrebbe averla rafforzata in qualche modo che noi non possiamo comprendere!” un crepitìo nell'aria particolarmente violento, proveniente da una delle aperture nella roccia che aveva appena risucchiato un tale, diede alla scena un'aria decisamente drammatica.
Mah. Secondo me ti fai troppi problemi. Io credo che abbia capito, adesso.”
Erlik sospirò, poi allungò una mano. “Forse hai ragione tu. Adesso ridammi la torcia.”
Gorka ubbidì. Appena l'oggetto passò di mano Erlik cominciò a tremare. “Sta succedendo qualcosa!”.
Cosa?” gli chiese l'amico, allarmato.
Non è ancora successo ma... potrebbe... i guardiani... si stanno muovendo...”
Che cosa?” chiese Gorka, sempre più preoccupato.
Devo andare!” la non-risposta di Erlik.
Vengo con te.”
No, lascia stare, non so quanto potrebbe volerci, è meglio che resti qui. Poi ti dirò”. Ciò detto ridiede la torcia all'amico e scattò in piedi. Un rapido balzo, prodigioso per occhi umani, e si lanciò nell'apertura della roccia a lui più vicina.
Un crepitìo incredibilmente forte, una luce incredibilmente vivida, e di lui rimase solo uno sbuffo di fumo, attraverso cui i viandanti continuarono imperterriti a marciare.

continua...

PS I nomi Lamiah, Erlik e Gorka sono nomi di vari maestri della notte che affronta il Dampyr di Mauro Boselli


martedì 11 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Quinta

Da qui in poi la storia prende una piega decisamente imprevista... chissà! Alle brutte mi farete notare che sto sgravando!


(immagine tratta da www.sergiobonellieditore.it)



[...]


Da quella notte la vita di Alfredo cambiò del tutto, di nuovo.
Le giornate divennero per lui un lunghissimo, estenuante conto alla rovescia che si esauriva al tramonto, quando, zaino in spalla – pieno delle cose che quegli strani ragazzi gli avevano chiesto – tornava alla radura.
Passò un mese, la luna completò un altro ciclo, e lui si ritrovò lì, sotto un altro plenilunio, a marciare verso quella casupola, unico essere vivente nei dintorni.
Memore degli avvertimenti di Penna-rossa, non aveva mai osato entrare nella strana costruzione, badando bene anzi di tenersi a debita distanza. Quella notte però, forse per la lunga attesa, forse confortato dalla presenza della luna piena, era risoluto a entrare anche da solo.
Arrivò quasi al limitare del bosco, nel punto in cui, pur essendo ancora nascosto dagli alberi, la casupola era visibile.
Nessuno. Ancora una volta.
Si sedette a terra a gambe incrociate e si accese una sigaretta, un ottimo modo per lasciar passare il tempo. Troppe ne aveva fumate, in quel punto, di notte, aspettando sa solo Dio cosa.
Formulò questo pensiero denso di amarezza, dopo di che si alzò di scatto, pestò a terra la sigaretta ancora quasi intatta con rabbia e fece per dirigersi alla casupola, stanco di inutili attese.
Neanche il tempo di muovere il primo passo, e udì un grido, secco, perentorio.
All'improvviso il bosco che fino a quel punto era stato deserto e immobile sembrò pullulare di vita: voci che si sovrapponevano, passi, il rumore dell'erba e dei rami secchi calpestati.
Nel giro di pochi secondi si trovò di fronte un uomo.
Nonostante i suoi precedenti non poté fare a meno di sbiancare.
L'uomo era alto, aveva i capelli lunghi che cadevano sulle spalle, indossava un mantello scuro e uno strano abito verde. Tra le mani un arco, con la freccia pronta ad essere scoccata verso il petto di Alfredo.
Un rapido sguardo e si rese conto di essere ora completamente circondato da una decina di uomini, identici a prima vista a quello che gli si era parato di fronte.
Istintivamente alzò le mani, ma la freccia e lo sguardo dell'arciere non si mossero di un millimetro.
L'uomo gli parlò. Aveva una voce profonda, e parlava una lingua melodica e cantilenante che a lui era perfettamente ignota; come quella della ragazza che aveva incontrato da quelle parti più o meno un mese prima.
Già, la ragazza.
Si ricordò dello strano affare che gli aveva regalato, un bastoncino da scuotere qualora avesse avuto bisogno di lei.
In quei rapidissimi istanti non riuscì a immaginare come quello strano essere avrebbe potuto essergli d'aiuto, ma tanto, pensò, peggio di così non gli poteva andare.
Rapidamente estrasse dalla tasca posteriore il bastoncino, mostrandolo subito all'arciere che continuava a minacciarlo, caso mai dovesse pensare che stesse estraendo un arma. Quello lo guardò interdetto, lasciandogli il tempo di scuotere rapidamente quel buffo oggetto.
Immediatamente risuonarono gli zoccoli di un cavallo al galoppo.
Una bestia maestosa apparve tra gli alberi, travolgendo tre di quegli strani uomini e fermandosi vicino ad Alfredo. In groppa sedeva una splendida valchiria, retta, maestosa, una lunga spada al fianco, una corazza a cingerle il busto.
Era la stessa ragazza di quella sera. Come avesse fatto quell'essere scimmiesco a trasformarsi in quella meraviglia Alfredo non poteva proprio saperlo, decisamente quella ragazza era un pozzo di sorprese.
L'uomo che lo aveva minacciato con l'arco, e che doveva essere il capo di quello strano gruppo, si rivolse alla ragazza, non senza aver prima abbassato le armi.
Lei gli rispose prontamente, sempre in quella strana lingua musicale, così diversa da quell'ammasso di suoni gutturali con cui Alfredo l'aveva sentita esprimersi la prima volta che l'aveva incontrata.
Dopo il rapidissimo scambio l'uomo rivolse ad Alfredo uno sguardo glaciale, poi con un gesto richiamò i suoi uomini, e sparirono tutti più rapidamente di come erano apparsi.
Adesso il bosco era di nuovo avvolto nel silenzio, l'unico rumore era il respiro affannoso del cavallo. Alfredo lo guardò meglio, era uno splendido stallone completamente nero, con una strana macchia a forma di stella sulla fronte.
“Chi... chi erano quei tipi?”. La voce gli tremava ancora, mentre si rivolgeva alla ragazza.
“Ti avevamo avvisato, di non cercare mai di entrare da solo nella casupola”. Rispose lei, dura. La sua voce era bellissima.
“Ma io... io.. ero qui... lontano... tra gli alberi... non volevo entrare...”.
“Non ti conviene raccontarmi bugie, né a me né ai miei amici. Non farlo mai più”. In groppa al suo cavallo, stava almeno un metro più alta di Alfredo, il quale, oltre al prevedibile spavento, provava anche una certa soggezione di fronte a quella donna altera e bellissima.
Arrossì vistosamente, colto in fallo solo per aver pensato di trasgredire alle regole che gli erano state date in quello stesso posto, e tacque, non trovando nulla da dire.
La ragazza scese da cavallo.
“Almeno mi hai portato le cose che ti avevo chiesto?” chiese sorridendo, evidentemente non era successo nulla di grave.
“Sì, le ho portate... ecco” rispose Alfredo, togliendo dallo zaino un pettine, uno specchietto, degli abiti - gonne e magliette per lo più – e una trousse che aveva pensato di aggiungere al tutto, tanto per non sbagliare e per farsi vedere solerte.
“Ohhh...” la ragazza guardava quelle poche cose estasiata. Alfredo stava per dirle che difficilmente avrebbe potuto essere più bella di come lo era quella sera, guerriera e selvaggia, però preferì tacere.
“Non è una questione di bellezza” disse lei, come se gli avesse letto nel pensiero “Queste cose sono così... così... vitali... forti... ma tu non puoi capire”.
“Perché non posso capire?”.
“Povero Alfredo”, tenera, accarezzandogli il viso “Smetti di farti domande utili, impara a ubbidirci, e non fare altro”.
Ormai lo spavento era passato, e Alfredo era in preda alla curiosità di capire cosa fosse successo pochi minuti prima e, soprattutto, al desiderio di correre a rivedere la sua Gabriella. Non sapendo come comportarsi, sbottò.
“Ma insomma! Io non sto capendo più niente! Mi dite di tornare quando voglio e di portarvi regali, io lo faccio e poi mi ritrovo circondato da una banda di arcieri! Mi spieghi una buona volta che cosa mi sta succedendo?”
“Povero Alfredo” ripeté lei “Dormi ora” Passandogli una mano sul viso “E avrai tutte le risposte che cerchi”.
Cadde addormentato di colpo. Dormì un sonno che gli parve lunghissimo, un sonno nero, innaturale, senza sogni.
Fu svegliato dalla luce dell'alba, mise a fuoco gli alberi, la radura, il silenzio assurdo di quel posto che ormai gli era più famigliare della sua stessa casa.
Stava per riassopirsi, ancora spossato dagli eventi della sera precedente.
Poi un rumore lo risvegliò del tutto, pompandogli in corpo energie che non credeva più di avere.
Passi nella radura, a pochi metri dal limitare del bosco, dove lui era appoggiato a un albero.
“Ciao piccolo”.
Era Gabriella, di nuovo.


continua...

giovedì 6 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Quarta



[...]

Gabriella era lì, sulla soglia della casupola.
La sua sagoma si stagliava nitida sull'oscurità dell'ingresso che avevano appena varcato assieme, in piedi, la testa ritta, i capelli mossi dal vento che soffiava appena.
Penna-rossa e il suo strano compare non si vedevano più, mentre nel vuoto oltre l'ingresso della casupola si intravedeva la strana ragazza che lo aveva aiutato a portarla fuori di lì.
Se solo avesse potuto avrebbe provato un'immensa gratitudine per quella strana creatura di cui ancora non aveva capito la provenienza. E lo stesso forse per gli altri due ceffi che lo avevano tormentato fino a pochi minuti prima.
Però in quel momento non provava altro che una gioia immensa, totale. Lo sguardo perso lungo i contorni di quel corpo che conosceva così bene, l'orecchio teso ai fruscii dei vestiti che lei indossava, mossi dal vento, l'olfatto pieno di quell'odore così familiare, la bocca piena del sapore inebriante della felicità, finalmente. All'appello mancava solo l'inconfondibile senso di pienezza dato dalla consistenza del suo corpo tra le dita.
Istintivamente fece un passo verso di lei, allungando una mano per toccarla.
“Nuuuuuu” dalla casupola la voce terribile della ragazza lo bloccò. Negli occhi di Gabriella comparve un terrore così grande che lui non immaginava potesse esistere.
“Allora non ci siamo capiti!”, Penna-rossa, di nuovo accanto a lui.
“N-no, io non voleva toccarla, era solo per...”, poi una stretta terribile gli spezzò la frase in gola. Di nuovo quegli occhi rossi, di un rosso che non aveva mai visto. “Non devi provarci mai più, altrimenti lei torna da dove è venuta e tu...”
“Nuuuuu!”, di nuovo la tipa.
“Va bene, va bene” Penna-rossa lo lasciò e lui prese a tossire tentando di tornare a respirare. “Per stavolta va bene, ma non provarci mai più. Adesso forza, và da lei, tra un po' verremo a riprenderla”.
“Coff-cough... come tra un po'? Io credevo...”
“Non mi interessa quello che credi tu. Cos'è? Vuoi tenertela una settimana? È già troppo così. E ora attento a quello che fai”.
Disse e sparì, con i suoi due strani compagni, in uno sbuffo di fumo. Avrebbe dovuto stupirsi, Alfredo, ma quella notte ne aveva viste veramente troppe. Si guardò intorno, erano soli, lui e Gabriella, davvero, finalmente.
Si sedette sull'erba, lei lo imitò, ripiegando agilmente le gambe sotto il corpo come aveva sempre fatto. Era lì, a pochi centimetri, il suo sguardo era fisso sull'uomo cui una volta, nel bosco lì dietro, aveva giurato eterno amore, ma in realtà guardava un punto indefinito fisso chissà dove.
Allora lui prese a parlarle.
Titubante, all'inizio. Poi le parole vennero fuori da sole. Raccontò tutto quello che aveva vissuto negli ultimi mesi, il dolore, la solitudine, la disperazione. Trovò il modo di descrivere quell'enorme buco nero che gli si era aperto in pieno petto, giusto tra lo stomaco e il cuore. Raccontò le giornate vuote e interminabili, passate con una foto, una maglietta, un libro, qualsiasi cosa contenesse un sia pur minimo ricordo tra le dita; le notti insonni, spese ad accarezzare quel vuoto nel letto reso ancor più grande e incolmabile dalla sua sagoma impressa nel materasso; raccontò i pianti e gli improperi, le urla e le maledizioni, le esplosioni di rabbia e l'incessante montare di una tristezza invincibile.
Mentre parlava guardava quel volto opaco e distaccato, lo sguardo vitreo, privo di vita, che cominciava ad animarsi. Piano piano la pelle riacquistava consistenza, come se qualcosa, dall'interno di quel corpo privo di vita, pompasse nuova linfa nelle vene e nei tessuti.
“E poi... alla fine... tu sei tornata da me”. Finì il racconto con gli occhi gonfi di lacrime e la gola secca. La prima luce dell'alba rivelava che erano trascorse almeno un paio d'ore da quando i due erano venuti fuori dalla casupola, sebbene a lui, nonostante il lungo monologo, sembrassero passati solo pochi minuti.
Finalmente gli occhi di Gabriella tornarono a brillare, le labbra si distesero in un sorriso, con la testa inclinata da un lato.
“Ciao, piccolo”. Disse lei, come ridestandosi da un sonno lunghissimo, e in effetti quello era il saluto che aveva riservato ad Alfredo per anni, ogni giorno, da quando era cominciata la loro storia.
Alfredo sussultò, per l'ennesima volta quella notte.
“Ciao piccola”. Rispose con un filo di voce, immobile sul prato eppure fluttuante in uno spazio indefinito, a metà strada tra il cielo, la terra e l'iperuranio.
“Per questa sera può bastare”. Deciso, perentorio, spuntato chissà da dove, Penna-rossa mise fine all'idillio.
“No... ti prego... ancora un po'...”. A parlare era stata Gabriella, disperata e quantomai viva.
Penna-rossa la fissò in volto, una scarica elettrica scosse l'aria della radura, e la ragazza
sparì nel nulla, come se non fosse mai stata lì.
“Che... che cosa le hai fatto?”. Gridò Alfredo.
“Nulla. Proprio nulla.” Rispose Penna-rossa, che adesso aveva il corpo interamente ricoperto di tatuaggi, come uno yakuza. “Ha semplicemente ripreso il suo posto nell'ordine delle cose”.
“E questo cosa vuol dire?”. Alfredo era sempre più angosciato, temendo di averla persa di nuovo.
“Vuol dire che è tornata al suo posto, dove sarebbe dovuta stare in queste ore, se io e i miei amici non avessimo deciso di aiutarti”. Con un tono saccente da primo della classe.
“E... e io... potrò vederla ancora?”. Alfredo aveva decina di domande da fare, tuttavia optò per la più scontata.
“Mmm” si fermò per accendersi un lungo sigaro cubano. “Direi di sì, se porti le cose che ti abbiamo chiesto, e se continui ad attenerti alle regole”.
“Farò tutto quello che volete” Gridò nuovamente. “Ma quando posso venire?”.
“Vieni quando vuoi, se vedi uno di noi fatti avanti, altrimenti tornatene a casa, questo non è un posto tranquillo”. Gli diede un buffetto sulla spalla e sparì nel nulla.
Alfredo rimase solo. Cadde in ginocchio, fissando l'ingresso della casupola. Sembrava impassibile, in realtà era tormentato dalla tentazione di entrare lì dentro da solo, infischiandosene dei divieti e delle regole di quello strano tipo.
Era lì lì per alzarsi ed entrare, quando sentì una mano sulla spalla.
Era la strana ragazza di prima. Lo guardava accorata, mugolando strani versi. Alfredo capì, non sapendo come, che lo stava scongiurando di non fare quello che aveva in mente.
“Non so perché, ma farò come dici, ora torno a casa” disse.
La ragazza sorrise e gli porse uno strano oggetto. Un bastoncino di legno, con alla sommità un palla fatta di fili di erba intrecciati. Lo scosse, indicando se stessa.
“Mi stai dicendo che se lo scuoto arrivi tu?”.
“Duh, Duh!”. Esclamò la ragazza annuendo.
Non sapeva perché, ma quello strano essere decisamente era dalla sua parte.
Poi il suo sguardo tornò serio, e prese a fare strani movimenti con le dita, accompagnati da esclamazioni gutturali.
“Posso chiamarti solo se ho qualcosa per te? Giusto?” chiese Alfredo, che ormai capiva tutto o quasi quello che lei diceva.
Per tutta risposta lei scosse la mano con il palmo rivolto verso il basso, con un'espressione grave.
“Solo se ne ho davvero bisogno?”.
“Duh, Duh!”. Di nuovo annuì.
E come farò a sapere quando sarà il momento?”.
La ragazza increspò il labbro inferiore socchiudendo gli occhi, come a dire, 'lo capirai'. Poi si alzò sulle punte dei piedi, gli baciò un angolo della bocca e, lentamente, rientrò nella casupola, non senza aver prima lanciato verso Alfredo un ultimo, malinconico sguardo.


continua...

lunedì 3 settembre 2007

Il sogno/1 - Parte Terza





[...]


“Togliti dai coglioni! Lasciami andare!”.
“Ehhh, quanta fretta! E dov'è che vuoi andare?”, il tipo mollò la presa e indicò con la mano l'ambiente in cui si trovavano: adesso era una minuscola stanzetta con la sagoma di Alfredo disegnata sul pavimento dalla luce della luna.
Alfredo sgranò gli occhi, deglutì cercando qualcosa da dire, ma Penna-rossa lo anticipò: “Tu qui senza di noi non puoi fare nulla. Noi siamo disposti ad aiutarti, tu però devi darci qualcosa in cambio”.
“E cosa?”. La ragazza e il cowboy rockettaro, fino a quel momento impassibili, si riscossero alle sue spalle: lei cominciò ad articolare strane parole nella lingua di prima, lui balbettò qualcosa che Alfredo non riuscì a capire, poi Penna-rossa li bloccò.
“Qualsiasi cosa, oggetti, cibo, vestiti, purché provenga dal tuo mondo.”.
“Dal mio mondo? E cosa vuol dire? E poi... che oggetti.. che vestiti....”
“Te l'ho detto, qualsiasi cosa. Per stasera ad esempio va benissimo quell'affare lì”.
Indicò la torcia che Alfredo portava appesa con un gancio alla cinta, per ogni evenienza.
“No! No! No! Io volevo...” il cowboy azzardò una protesta, ma fu prontamente zittito dal suo compare.
“Uuuu, e piantala! Non vedi che non ha niente con sé? Per stasera andrà bene così, poi la prossima volta ti porterà qualche cd va bene? Scusalo – adesso rivolto ad Alfredo – ma è un po' picchiatello, e adora il rock anni '70, tienilo a mente, che ti conviene tenerci buoni, tutti e tre”.
“Va bene ma....”
“Shhht” Penna-rossa ormai ci aveva preso gusto nell'interromperlo e nel dettare le regole “Mentre per la nostra amica.. - la strana ragazza trattenne il fiato guardandoli speranzosa – un pettine, per rimettersi un po' a posto, e magari qualche vestito carino, alla moda, che deve ripulirsi un po'”. La ragazza saltellò battendo le mani, evidentemente voleva proprio quelle cose.
“Ok – disse Alfredo, sempre più smarrito – ma adesso... cosa succede?”.
“Adesso io prendo questa” – Penna-rossa sfilò la torcia di Alfredo e gliela puntò in volto – “poi, tu vai dentro” – schioccò le dita e riapparve l'immensa fila che aveva visto poco prima, anche se stavolta le persone non erano le stesse, Gabriella non era più dove era prima, anche se gli parve di vederla qualche metro più in giù. Istintivamente si lanciò verso di lei, ma fu bloccato per la seconda volta in pochi minuti. Ormai era al limite della sopportazione: vederla lì, a pochi metri, e non potersi muovere per raggiungerla era una tortura indicibile. Provò a chiamarla, ma la ragazza – che evidentemente tanto stupida non era – aveva intuito le sue intuizioni e, da dietro, gli tappò la bocca con la mano. Non potè non notare che la pelle della tipa puzzava terribilmente di piscio.
“Ancora non ho finito” – disse Penna-rossa tenendolo incollato al muro - “Adesso puoi andare dalla tua donna, puoi portarla fuori di qui, ma non potrai mai portarla fuori da questa radura capito? Il bosco, le montagne qui dietro e tutto quello che c'è dopo per lei sono tabù, chiaro?”
La ragazza gli liberò la bocca, Alfredo soppresse un conato di vomito prima di rispondere: “S-sì, sì, tutto chiaro. Posso andare ora?”.
“Ancora non ho finito. Per nessun motivo dovrai mai toccare o anche solo sfiorare lei o qualsiasi altra persona con cui entrerai in contatto qui dentro, chiaro?”.
“Ma.. come...”
Il tipo percepì tutta la sua delusione, ma non si intenerì più di tanto, il tono continuava ad essere duro e perentorio: “Scordati baci, carezze e quant'altro, per quelli accontentati dei tuoi ricordi. Le potrai parlare e niente di più”. Aumentò la stretta sul collo di Alfredo, fissandolo ancora negli occhi, stavolta il suo sguardo era totalmente rosso, rosso come l'inferno. “Se non farai come ti ho detto le conseguenze saranno terribili, per lei, per noi e, soprattutto, per te. Chiaro?”.
“Sì, sì, è tutto chiaro”.
“Allora vai.”
I due lo lasciarono libero. In un attimo tutta la rabbia, il terrore, la speranza che gli avevano squassato cuore e viscere fin lì sparirono, e come liberato d'improvviso da una gigantesca zavorra Alfredo si sentì schizzare verso l'alto, leggero, e, per la prima volta da mesi, incredibilmente felice. L'ansia che lo aveva tormentato da quando era uscito di casa lo aveva del tutto abbandonato. Assaporò ogni singolo passo, ogni minima contrazione dei suoi muscoli, percorrendo quei pochi metri che lo separavano da lei.
Avvicinandosi percorreva con lo sguardo il suo volto, i suoi lineamenti, riconoscendo i minuscoli dettagli che aveva scoperto e amato negli anni passati assieme. Quel modo vezzoso di stare in piedi, le fossette vicino agli occhi, le mani piccole e tonde, quasi da bambina.
Non notò che era vestita in maniera diversa da quando l'aveva rivista per la prima volta, pochi minuti prima, e che ora non aveva nessuna borsetta; e non diede peso al suo sguardo assente e alla sua apparente inconsistenza.
Era troppo impegnato a riassaporare dopo tanto tempo il gusto della felicità.
Nonostante tutto impiegò pochi istanti a raggiungerla. Adesso era accanto a lei, estasiato dalla vista di quel profilo che tante volte aveva accarezzato. Provò a chiamarla ma non ottenne risposta.
“Gabriella....sono io... Alfredo...”. Riprovò.
La ragazza si girò, guardò nella direzione di quello che era stato il suo uomo, ma per Alfredo fu come se le stesse guardandogli attraverso, tanto quegli occhi erano privi del seppur minimo alito di vita.
“Gabriella... sono io, vieni con me, ti porto via... ti porto fuori....”. Si sentiva sull'orlo di una crisi isterica. Gabriella era lì, a non più di venti centimetri da lui, ma non dava segni di vita né tantomeno di riconoscerlo. E lui non poteva toccarla! Avrebbe voluto afferrarla e portarla via di peso, nella loro casa, e riportarla in vita a forza di baci, ma la minaccia del tipo ancora gli risuonava nelle orecchie. E comunque, per quanto felice di ritrovarsi di nuovo accanto alla sua amata, il fatto di essere circondato da morti lo inquietava non poco.
All'improvviso però si accorse che la strana ragazza del gruppo di poc'anzi stazionava accanto a lui. Emise uno dei suoi strani versi, e Gabriella sembrò ridestarsi dal suo torpore: alzò i suoi occhi assenti in risposta a quella che sembrava essere una chiamata.
La ragazza articolò altri suoni. Alfredo non capiva una parola, ma intuì che stava invitando Gabriella a seguirlo.
Finalmente lei lo guardò. Per un attimo i suoi occhi grigi brillarono di una luce familiare, prima di tornare nel torpore. Dopo di che Gabriella mosse un passo verso di lui.
La ragazza parlò di nuovo. Stavolta ce l'aveva con lui.
Con un gesto inequivocabile lo invitò a dirigersi verso l'uscita.
Obbedì meccanicamente, più smarrito che mai. In quel momento probabilmente si sarebbe anche gettato nel fuoco, se solo qualcuno glielo avesse ordinato.
Mosse due passi e capì, dal rumore dietro di lui, che Gabriella lo stava seguendo. Non osò girarsi a guardare: Penna-rossa non aveva detto niente al riguardo, ma nel dubbio – memore della storia del povero Orfeo – preferiva aspettare di essere fuori prima di rivolgere lo sguardo alla sua Gabriella, d'altronde si trattava solo di pochi metri.
Guardò però la strana ragazza che in qualche maniera lo aveva aiutato.
Era lì, immobile con le mani giunte sul petto, guardava tutta la scena con un sorriso dolcissimo, mentre due grossi lacrimoni le solcavano il viso che, se ne avvide solo ora, non era affatto brutto, anzi.
Nessun dubbio, era commossa.
Alfredo non ebbe il tempo di compiacersi per l'empatia dimostrata da quella che, fino a quel momento, aveva considerato alla stregua di un carnefice o di un carceriere, che si trovò fuori.
La morbidezza dell'erba sotto i piedi e un leggero venticello sul viso lo fecero sentire vivo come non mai, ma non si concesse che un istante, poi si voltò.

continua...