giovedì 30 agosto 2007

Il sogno/1 - Parte Seconda

[...]

“Ah no? E allora cosa ci sei venuto a fare qui?”. Dal tono con cui lo incalzava sembrava che Penna-rossa si stesse divertendo molto. “Il tuo dolore non è un male?”. Continuò. “E tu forse non vuoi guarire?”, disse, soffiandogli in faccia una nuvola di fumo.
“S-sì..”, rispose Alfredo tra i singhiozzi.
Penna-rossa lo prese per le spalle e lo sbattè con violenza contro il muro della casupola. I due si fissarono, gli occhi del tipo presero a mutare, si allargarono all'insù mentre le iridi volgevano verso quel grigio-cielo-di-novembre che lui conosceva così bene e che non avrebbe mai potuto confondere.
“Aiutami amore, io non voglio morire...”, le labbra erano di Penna-rossa, ma gli occhi e la voce erano suoi, erano di Gabriella, e quelle erano le ultime parole che gli aveva rivolto, l'ultima volta che l'aveva vista viva. Poi era fuggito dalla sua stanza, da quel letto su cui la sua donna spendeva le ultime ore di vita. E quando era rientrato, poco dopo, lei era fredda, spenta, morta, consunta da quel dannato 'male incurabile'.
“Aaaarrrrrhh”. Stavolta l'urlo era vero, ed era suo, di Alfredo. Adesso era troppo per lui, crollò a terra pronto a fare qualsiasi cosa i tre tipi gli avessero chiesto, pur di far terminare quel supplizio. Anche andarsene via e abbandonare del tutto la folle idea che lo aveva portato fin lì, quella notte.
“Tu sei venuto fin qui, stanotte, perché speri di andartela a riprendere, non è così?”.
Alfredo rispose annuendo, i singhiozzi ora erano troppo forti.
“E non è un'idea del tutto sballata”, adesso assunse un tono decisamente professorale, svuotando la pipa e riponendola in una tasca dei suoi pantaloni da cavallerizzo. “Dalle tue parti credete che questa sia una porta dell'aldilà, dico bene?”, disse, indicando la casupola, e poi continuò senza attendere la scontata risposta.
“Ebbene è così, però se tu provassi a entrare qui dentro da solo, nel migliore dei casi ti troveresti in una stanza vuota, mentre nel peggiore... bè, non è una situazione che ci riguarda, almeno per il momento”.
Alfredo lo guardava basito. In un altromomento, in un altro posto, avrebbe bollato quel tizio come un cazzaro da due soldi, di quelli che portano le straniere a vedere la casupola – da lontano ben inteso – inventando storie paurose nella speranza di portarsele a letto, o meglio, per boschi. In quei momenti però, cominciava davvero a convincersi che fosse davvero lui la sua ultima e unica speranza.
“Se invece ti aiutiamo noi... potresti avere, diciamo, qualche possibilità. Eh sì, è proprio questo che siamo disposti a concederti, una possibilità, anzi, tante possibilità, perché questa storia non finisce certo stasera, giusto ragazzi?” si rivolse ai suoi compagni che fino a quel momento lo avevano guardato annoiati. Annuirono all'unisono, senza dire nulla.
“Cosa vuol dire che non finisce stasera?”, chiese Alfredo, che un minimo si era ricomposto. La curiosità e la speranza avevano avuto la meglio sulla paura e lo sbigottimento.
“Prova ad affacciarti dentro, adesso”.
Alfredo fece pochi passi, arrivò davanti quell'ingresso tanto temuto e su cui ne aveva sentite di tutti i colori. Guardò dentro e trasalì. Aveva pensato a lungo a cosa avrebbe visto una volta trovato il coraggio di entrare lì dentro, ma mai avrebbe immaginato quello che ora vedeva davanti a lui.
La luce della luna piena si diffondeva in uno spazio che gli parve infinito, rendendo visibile una fila incredibile di persone, di tutte le razze. Centinaia, forse migliaia di persone si snodavano formando un 'serpentone' di cui Alfredo non riusciva a vedere la fine. Tutti uno dietro l'altro, con lo sguardo assente fisso in un punto indefinito. Notò subito la differenza di colore tra quelle persone: alcune sembravano vive e reali quanto lo era lui; altre invece, erano come sbiadite o offuscate, eppure, come tutti, proiettavano la propria ombra alla luce della luna.
Sentì una mano sulla spalla, era Penna-rossa.
“Lei è lì, da qualche parte”.
“Tu come lo sai? Chi sono loro?”, rispose Alfredo.
“Non fare lo scemo, loro sono i morti, e la tua Gabriella è in mezzo a loro, o almeno credo”.
“Cosa vuol dire 'almeno credo?'”.
“Vuol dire che questa casupola che voi umani evitate da millenni è veramente un punto di contatto con l'aldilà, e che se sei fortunato stasera stessa rivedrai la tua Gabriella”.
Alfredo ormai era totalmente in bambola. Anziché lanciarsi in mezzo a quelle persone rimase lì a fissare quello strano tipo che fino a quel momento non aveva fatto altro che tormentarlo.
“E se non c'è?”. Chiese .
“Se non c'è la vedrai un'altra volta, ma... guarda, non è quella lì, liggiù dietro quel tipo alto e pelato”.
Alfredo guardò e per un attimo si sentì come se il cuore stesse per schizzargli fuori dal petto. Là, pochi metri avanti a lui, una silhouette inconfondibile, alta, snella, con lunghi capelli biondi ad accarezzare le spalle, una borsetta stretta tra le mani.
Era lei!
Per un attimo si chiese come avesse fatto a non notarla subito, ma non attese la risposta.
Stava per lanciarsi, quando Penna-rossa lo afferrò per il collo.
Ah-ah, ancora non ci siamo messi d'accordo”, e Alfredo sentì che stava per fracassare la sua stupida testa pelata contro il muro.



...continua

mercoledì 29 agosto 2007

L'amara sorpresa del commissario Giovinco



Pistolotto moralista nascosto - neanche troppo bene - in un racconto noir.


La donna era in piedi, davanti alla finestra, una mano appoggiata sul davanzale, impeccabile in giacca e pantaloni scuri, i capelli raccolti sulla nuca. Sembrava immersa nella contemplazione del temporale che imperversava lì fuori; lampi, tuoni, saette e un'incredibile quantità d'acqua che si rovesciava sul suo giardino tanto ben curato, ammirato e invidiato da tutte le donne del paese.
In realtà il suo sguardo e i suoi pensieri erano fissi sul vialetto d'ingresso, illuminato da eleganti lampade in ferro battuto.
La donna aspettava qualcuno.
L'attesa durò poco. Era lì da pochi minuti, neanche il tempo di finire la sua sigaretta, e vide procedere per il vialetto una figura ben nota.
Aprì la porta sorridendo, non era la persona, o meglio le persone che si aspettava di vedere, ma era contenta ugualmente.
L'uomo che si trovò davanti poteva benissimo essere appena uscito da un noir americano anni '50: cappello a falde larghe, da cui la pioggia scivolava copiosa su un impermeabile beige, oramai fradicio. Peccato che i due non fossero a Chicago o a Seattle, bensì in un oscuro paesino delle Langhe.
“Toh, ma che bella sorpresa!”. Esclamò lei, sorpresa e contentezza confermate dalla sua espressione.
“La mia visita non è né una sorpresa né tantomeno può dirsi bella, dovresti immaginarlo”. Rispose lui, laconico, voce arrochita da chissà quante sigarette per chissà quanti anni, molti, a giudicare dalle rughe che gli scavavano il viso.
“Invece lo è, te non ti aspettavo proprio. Ma entra dai, che ti bagni”. Il sorriso la rendeva ancora più bella di quanto non fosse, nonostante anche lei di anni dovesse averne un bel po'.

L'uomo entrò, togliendosi il cappello. In fin dei conti era un gentiluomo d'altri tempi. L'impermeabile lo tenne però, infischiandosene dei goccioloni che bagnavano il tappeto all'ingresso.
“Commissario Giovinco! Stai bagnando il mio tappeto!”. Disse lei, sempre sorridente.
“Me ne infischio del tuo tappeto – vitale come una lapide di marmo – e presto anche tu avrai altri problemi. E comunque io non sono più commissario, sono in pensione ora, lo sai bene”.
“E allora qui che ci sei venuto a fare? A prenderti la gloria che ti hanno negato anni fa?”. Lo guardava strafottente, le braccia conserte, le gambe vezzosamente incrociate.
“Faccio solo quello che dovrebbero fare i miei ex-colleghi e i miei successori. Ma pare che adesso le priorità siano altre”.

Lei esplose in una risata sincera, di cuore. “Ti ho sempre detto che sei nato con quarant'anni di ritardo! Di cosa ti meravigli? È giusto che i tuoi facciano così!”.
“Sarà, ma ai miei tempi prima si arrestava poi si parlava, non come ora, prima a pavoneggiarsi davanti a telecamere e microfoni, e poi si procede, e magari l'assassino – o meglio l'assassina – vede tutto in tv e scappa”.
Una risata ancor più fragorosa della prima. “E dove vuoi che vada? Ma mi vedi? Sono una vecchia di quasi sessant'anni, dove potrei mai rifugiarmi? Con questo temporale, poi!”.
“Comunque non sono venuto per portarti via o per sorvegliarti. Vorrei solo chiederti perché, e penso di meritarmi una spiegazione dettagliata”.
“Hai ragione, te la meriti. Ma siediti, e tieniti pure quel dannato impermeabile. Whisky giusto?”. Andò al mobile bar e riempì due bicchieri senza attendere la risposta. Un sorso copioso, e poi continuò. “Allora, cosa vuoi sapere?”.
Te l'ho detto. Voglio sapere perché”.
Perché cosa?”. Altro scoppio di risa, stavolta però meno genuino, forse forzato.

Lui, il commissario, tirò un lungo sorso dal bicchiere, sospirò, si accese una sigaretta: “Perché tu, una sera di dieci anni fa, una sera piovosa e maledetta da dio e dagli uomini come questa, ti sei fatta sessanta chilometri di macchina, hai bussato a una porta di una casa come questa, hai aspettato che la migliore amica di tua figlia, una ragazza di nemmeno venticinque anni, ti aprisse, l'hai massacrata a colpi di roncola, e poi te ne sei tornata a casa. Perché? Questo voglio sapere. Perché hai fatto una cosa del genere?”.
Lei vuotò il suo bicchiere, sorseggiando le ultime gocce di whisky. Si alzò per riempirlo ancora, ancheggiando come se avesse avuto trent'anni di meno. Tornò alla sua poltrona, un sorso, un'altra sigaretta. Poi rispose, o meglio, finse di, con lo sguardo della gatta che gioca col topo: “Sei sempre stato bravo, troppo bravo per fare lo sbirro”. Un altro sorso, accompagnato da uno sguardo languido.
Lui deglutì, si bagnò le labbra prima di rispondere, o meglio, ribattere: “Questo cosa c'entra ora? Non sono venuto qui per parlare della mia bravura”. Un tremolio della voce tradì il suo nervosismo.
Modesto e integerrimo, forse anche troppo. Tanto da non venire a letto con me. Eppure allora ero un bel bocconcino no?”. Bevve ancora, guardandolo fisso negli occhi.
Lui vuotò il bicchiere d'un fiato. Andò al mobile bar e se lo riempì di nuovo, portandosi dietro la bottiglia. Si sedette di nuovo, spense la sua sigaretta direttamente sul parquet, acciaccandola col tacco, poi ne accese subito un'altra, senza dir nulla. La donna colse la palla al balzo.
Tu avevi capito tutto, ti mancava solo una prova. Che peccato – sembrando realmente rammaricata – quanto talento sprecato”.
Il tuo alibi faceva acqua da tutte le parti”. Intervenne lui, dopo che due sorsi lo avevano tirato un po' su.
Per te, forse. Ma quale sbirro 'normale' – facendo con le dita il gesto delle virgolette - avrebbe messo in dubbio la parola di una stimata madre di famiglia come me?”.

Lui non rispose, non bevve, non tirò dalla sua sigaretta. Rimase immobile, fissandola, respirando rumorosamente, di rabbia, come un toro che si prepara a caricare.
Lei, per nulla impressionata dalla sua collera, lasciò passare almeno un minuto prima di continuare.
L'ho fatto per invidia”. Gelida, con due cristalli di ghiaccio al posto degli occhi. “Marisa era sempre stata 'la prima della classe'. Brava a scuola, bella, con i ragazzi più belli a farle la corte eppure sempre con la testa con le spalle”.
Il commissario intuì la piega del discorso della donna, e un brivido gli percorse la schiena.
Aveva cominciato a lavorare come giornalista, un ottimo posto, a due passi da casa. E stava per fare un ottimo matrimonio, con il figlio del deputato locale”. Altro sorso, altra sigaretta. “La mia Francine invece, passava per una poco di buono”.
E Dio sa se non lo era – pensò il commissario – sempre accompagnata con i peggiori ceffi della zona.
Eppure non era colpa sua.”
Il commissario non aveva mai conosciuto una madre pronta a riconoscere le colpe del sangue del suo sangue.
Solo che aveva scelto una carriera difficile. Nel mondo dello spettacolo, si sa, non entri se non hai conoscenze, agganci”. Un'altra pausa per riempirsi ancora il bicchiere. “E qui, in montagna, che agganci puoi mai avere?”. Lo guardò accorata, quasi cercando comprensione.
E lui, per un momento, quasi quasi ci cascò.
La chiamai così apposta, Francine D'Aguanno, un nome perfetto per una star, non trovi?”.
Il briciolo d'empatia che aveva provato svanì di colpo.
Eppure... non era servito a nulla, come tutti quei provini, quelle audizioni...”
Una ragazza di venticinque anni morta per le frustrazioni di una madre psicotica. Iniziò a rimpiangere di non avere con sé la pistola, ma nello stesso tempo gli sembrava che ancora mancasse qualcosa per il quadro completo. “Ok eri invidiosa, ma perché ammazzarla?”.
Per cogliere due piccioni con una fava”. Rispose lei, stringendo le spalle, come fosse la cosa più ovvia del mondo.
Cosa?”.
Per liberarmi di un peso, e dare finalmente alla mia Francine la sua possibilità”.

Cominciava a capire, ma preferì far finta di nulla, almeno con se stesso.
Cosa intendi per... possibilità...”.
Lei adesso aveva perso tutta la sua sfrontatezza, sembrava un'insegnante di latino intenta a spiegare a un alunno particolarmente lento la perifrastica passiva. “Ricordi in quei giorni, quanti giornalisti, quante telecamere... sapevo che sarebbero arrivati - all'improvviso prese un'espressione sognante, con gli occhi a guardare un punto indefinito sulla parete – la mia piccola fu bravissima, a recitare la parte dell'amica affranta con i giornalisti delle tv...”.
Lui tossì fuori il fumo e il whisky che aveva appena ingurgitato, per la prima volta quella sera veramente incredulo. “Ma... ma... lei era la sua migliore amica!”, quasi gridò.
La donna riscoppiò a ridere. “Migliore amica! A venticinque anni! Cosa vuoi che se ne sappia a quell'età? E comunque non conta. La mia piccola fu bravissima, tanto che, ricorderai, cominciò ad andare in tv.”
Il commissario ricordava, eccome se ricordava. Un ignobile e squallido balletto mediatico, con quell'imbecille di Francine a concedere interviste a destra e sinistra prima, poi intenta a saltare da un salotto televisivo all'altro, sempre scosciata, sempre pronta alla lacrima. E poi ancora un reality, una fiction, addirittura un film, e una serie infinita di ospitate in tv. Ormai era una celebrità, solo perché le avevano ammazzato la migliore amica, e in paese non la si vedeva quasi più, anche se ultimamente, la sua fama era un po' in calo.
E tu sapevi che sarebbe andata così?”. Sempre più incredulo.
No, non lo sapevo. Lo speravo.”. Di nuovo glaciale. “E mi è andata bene”.
E tu hai ucciso una ragazza per una ...” - stava per dire speranza, ma si interruppe, la donna intervenne per togliergli l'impaccio.
Una speranza sì, e una soddisfazione personale, non dimenticarlo”.
Ma adesso pagherai tutto, brutta bastarda”. Il bicchiere gli si sbriciolò tra le mani, tanta era la rabbia, ma lui quasi non si accorse dei vetri che gli entravano nella carne, annichilito dall'ennesima, insopportabile risata.
E cosa vuoi che paghi? Quanto vuoi che rimanga in galera io, alla mia età, con la mia fedina penale immacolata?”. “Pochi mesi al massimo, poi andrò in tv a fare compagnia a mia figlia, poverina, aveva proprio bisogno di un'altra spinta. Sai che colpo, io e lei assieme? La starlette e sua madre assassina!”

L'ombra di un sospetto cominciò ad accarezzargli la nuca, come sempre succedeva quando aveva un'intuizione, pensò che forse era meglio fare finta di niente, di non aver sentito. Poi però la curiosità ebbe la meglio.
Cosa vuol dire 'aveva proprio bisogno di un'altra spinta'”?
Oooohhh, andiamo Giovinco, uno così sveglio non ci arriva da solo?”.

Si alzò, riempì il bicchiere e tornò a sedere, assaporando con gli occhi l'ansia di sapere del commissario.
Ti sembra un caso – riprese dopo un minuto scarso lungo un secolo per il commissario – che adesso, dopo dieci anni salti fuori l'arma del delitto? La prova che tu non hai mai trovato?”
La sua intuizione stava diventando realtà, ma stavolta, contrariamente a quanto gli succedeva durante la sua carriera, non se ne rallegrò per nulla.
E non ti sembra strano che dopo dieci anni, le tracce sulla lama, sul manico, siano ancora così nitide?”.
L'hai... l'hai fatta trovare tu....” incredulo.
Esatto. L'ho nascosta per tutto questo tempo, e ora l'ho tirata fuori. Pensa... l'altra sera la mia Francine è stata con un calciatore. Il porco ha fatto i suoi comodi, e poi le ha detto che lei era 'troppo poco famosa per lui'”. Accese l'ennesima sigaretta. “In quel momento ho capito che era ora che l'arma saltasse fuori. Adesso la mia Francine sarà per tutti la figlia dell'assassina della sua migliore amica. Vale a dire altre ospitate in tv, magari un'altra fiction, forse un film. E tra qualche mese, il tempo di una pena ridicola, io sarò accanto a lei, a fingere di espiare. Amore filiale ed espiazione, una manna per l'audience, non credi?”.

Non credeva, ma alle sue orecchie. Aveva capito subito, dieci anni prima, che quella donna era un'assassina, ma non era mai riuscito a incastrarla, e, soprattutto, non aveva mai capito i suoi moventi. Forse perché accecato dall'attrazione che provava per lei. Adesso avrebbe dato un rene e uno dei suoi malandati polmoni per non essere mai entrato in quella storia.
All'improvviso una sirena ruppe il silenzio.
Toh, i tuoi amici hanno finito la conferenza stampa, che fai, li aspetti?”. Aveva appena confessato l'omicidio di una ragazzina, stava per essere arrestata, eppure ancora trovava la voglia di prenderlo in giro.
Giovinco si alzò e, senza dir nulla, uscì. Al cancello incrociò il commissario Bevere, il suo successore, i capelli impomatati, il viso ancora imbalsamato dal cerone per la diretta tv della sua conferenza stampa. L'idiota lo salutò battendo i tacchi, lui lo scostò bruscamente. Pochi metri più avanti trovò un capannello di giornalisti e cameramen. Uno di loro, un vecchio cronista di nera che aveva seguito il caso tanto tempo prima lo riconobbe e gli chiese: “Commissario Giovinco, lei all'epoca aveva capito tutto, è felice ora che il caso è risolto?”.
Giovinco lo guardò, interdetto, poi rispose: “Non avevo capito nulla. Non capisco nulla”.
Poi, si accese una sigaretta, e sparì nella pioggia.


Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti è puramente casuale e non voluto.


mercoledì 22 agosto 2007

Il sogno/1 - Parte Prima

Prima parte di un racconto ispirato da un sogno.




Una costruzione di mattoni, bassa, quadrata, a un piano solo, pochi metri per lato, un'entrata minuscola l'unica apertura. Era in mezzo a quel campo che aveva fatto e continuava a fare la fortuna di tutti i tombaroli della zona da tempi immemori, eppure nessuno sembrava mai averle dato una qualche importanza. In realtà il sentimento che nel corso dei secoli aveva tenuto lontani uomini e animali da quella strana costruzione non era l'indifferenza, bensì la paura.Alfredo, nato e cresciuto lì, se non assiduo quantomeno abituale frequentatore di quella necropoli etrusca, lo sapeva bene. Eppure si stava dirigendo proprio lì.
La notte era calda e di luna piena, il bosco e la radura sembravano deserti, a parte i normali rumori di un bosco di notte: grilli, foglie mosse da qualche alito di vento, altri animali attorno a lui. Ma mano a mano che il suo obbiettivo si avvicinava i rumori diminuivano d'intensità, sempre più lontani. Sapeva, Alfredo, che presto sarebbero cessati del tutto.
Era sempre stato così, quella costruzione dominava il pianoro chissà da quanti secoli, tozza e potente nelle sue linee semplici e arcaiche, senza che nessun essere vivente osasse avvicinarsi.
Nei paesi lì intorno erano sempre girate voci inquietanti al riguardo, e non si sapeva di nessuno che fosse entrato a curiosare.
Tanto meglio – pensò Alfredo – la totale ignoranza di ciò che lo aspettava quella notte era per lui un'immensa e folle fonte di speranza, l'unica che gli fosse rimasta.
Adesso tutto era avvolto da un silenzio irreale, innaturale per una notte d'estate. Tra lui e la vista della sua meta solo pochi cespugli.
Poi, all'improvviso, pochi attimi prima che la 'casupola' comparisse alla sua vista, un grido. Anzi, più che un grido, un suono inclassificabile, di origine se non umana quantomeno molto prossima, e tanto acuto da gelare il sangue e polverizzare le vene.
Un attimo, non di più, bastò a sopprimere l'istinto della fuga; gli ci erano voluti mesi a maturare il coraggio e la follia per tentare quell'impresa, e adesso non sarebbe stato certo un urlo o chissà cosa a fermarlo, tanto, tutto quello che aveva da perdere l'aveva già perso tempo fa.
Si fece coraggio e si affacciò.
Il terrore dovuto all'urlo fu nulla rispetto alla sorpresa di vedere un gruppo di persone proprio lì, davanti alla casupola dove lui in quasi trent'anni di vita non aveva mai visto nessuno. C'erano infatti tre ragazzi più o meno della sua età. La distanza – qualche decina di metri – gli impediva una chiara visione di quelli che, intimamente, aveva già percepito come compagni d'avventura, ma si rese subito conto che il gruppo aveva qualcosa di strano.
Di nuovo un suono molto simile all'urlo o quel che era di poco prima; capì che veniva da una ragazza, e che non era un urlo, bensì un aberrante tentativo di risata.
“Questa è proprio andata – disse ridendo, normalmente, uno dei ragazzi vicino a lei – misà che non la riprendiamo più!”.
“Shhht! Basta fare i cretini! È arrivato”. Disse un altro del gruppo, e, rivolto ad Alfredo, “Vieni, vieni, ti stavamo aspettando”.
Come era possibile? Non aveva detto a nessuno cosa aveva intenzione di fare quella notte, per paura di essere preso per matto. Eppure era certo di aver sentito bene, tant'è che un altro del gruppo lo esortò a farsi avanti a strani ma inequivocabili gesti.
Si avvicinò cercando di stare o quantomeno mostrarsi tranquillo, anche se non era facile: lo sguardo dei tre lo seguiva passo passo, e Alfredo lo sentiva come un macigno sul petto.
Definirli strani sarebbe stato poco: la ragazza dell'urlo stava a pochi metri da lui, lo guardava fisso, con uno sguardo che non avrebbe saputo se definire assente o idiota, curva, con le braccia a sfiorare il terreno, come una scimmia o un uomo primitivo.
Quello che l'aveva esortato a raggiungerli pochi attimi prima lo guardava sogghignando. Indossava dei pantaloni da cavallerizzo infilati in un paio di stivali di cuoio, che gli davano un inquietante aspetto da satiro. Dalla cintola in su era completamente nudo, salvo una piuma rossa che sembrava piantata al centro del suo cranio rasato e un filo da cucito che gli attraversava i capezzoli, il filo terminava nella cruna di un ago infilato nella carne all'altezza del costato.
La ragazza dell'urlo lo indicò con un dito, pronunciando parole gutturali, a lui incomprensibili.
“Cos'ha quella ragazza?”, chiese, la voce gli sembrò abbastanza ferma, sebbene fosse ancora più terrorizzato di prima.
“Oh niente, è stata via troppo tempo, e ha dimenticato come ci si comporta da queste parti, ma non pensare a lei, pensa a te” disse perentorio il tipo con la piuma in testa.
“Sì, giusto, che cosa ci hai portato eh? Cosacihaiportatocosacihaiportatocosacihaiportato?”, il tipo che lo aveva chiamato a gesti intervenne cantilenando e ballandogli intorno. Vestiva con una maglietta dei Lynyrd Skynyrd, sopra jeans consunti e anfibi muniti di speroni, che ogni tanto sbatteva facendoli tintinnare.
“Ma... io veramente non ho portato niente, non sapevo che....”
“Come non ci ha portato niente? Tu ci avevi garantito che....”, il cowboy rockettaro sembrava incazzato nero, ma stavolta ce l'aveva con il suo amico o quel che era.
“Stai zitto tu – decisamente il tipo coi capezzoli bucati doveva essere una specie di capo – ho detto che ci avrebbe portato delle cose, ma non che le avrebbe portate stasera”.
“Ehi un momento – si riscosse Alfredo - perché mai dovrei portarvi delle cose?”. Cominciava ad incazzarsi, adesso, quei tre avevano tutta l'aria di essere lì per rovinare i suoi piani.
“Perché noi siamo gli unici che ti possiamo aiutare, Alfredo”.
Bene, Piuma-rossa sapeva pure il suo nome. “Ah sì? E come? E soprattutto, per cosa mi potreste aiutare? Io non vi ho chiesto niente”.
“Non ci hai chiesto niente, ma sappiamo benissimo cosa vuoi” - Piuma-rossa si fermò per accendere una pipa - “Tu vuoi guarire”.
“Guarire? Ma io non sono malato”. Disse Alfredo sempre più incazzato.
“Come no, come è che si dice da voi? Come ti disse quel dottore? Ah sì, male incurabile. Caro Alfredo, tu hai un male incurabile”.
“No! Non io, non io!” disse Alfredo, che adesso si sentiva mancare la terra sotto i piedi. La voce del tipo era cambiata mentre parlava, quando aveva detto 'male incurabile' aveva sentito la stessa voce del medico che gli aveva spezzato il cuore, molto tempo fa.
Lacrime calde cominciarono a scorrergli sul viso, “non io, non io...” continuava a ripetere.

(continua...)

mercoledì 1 agosto 2007

L'ultima sigaretta

Adattamento di un soggetto scritto tempo fa per un cortometraggio sull'ultima sigaretta di un condannato a morte.

Patrik Bateman guardava il vuoto davanti a lui. Peccato che quel vuoto andasse a finire su un piatto sporco e una lattina di birra accartocciata.
Il suo sguardo avrebbe potuto spingersi più in là, ma sarebbe andato a incocciare contro una serie di sbarre verticali in acciaio, ferro o sa Dio cosa, e quindi il piatto e la lattina andavano più che bene.
Il prete parlò da un punto imprecisato dietro la sua spalla sinistra:
“Figliolo, sei sicuro della tua scelta? Ricorda che il signore è misericordioso, ti concederà il suo perdono, se glielo chiederai.”
Avete presente una faccia da prete? Di quelle facce che quando le vedi pensi 'ok, questo fa il prete'. Proprio come la faccia da medico o da prof o da gran figlio di buona donna.
Ecco, questo prete qui aveva proprio una faccia da prete: contrita, assorta nella contemplazione dei peccati dell'umanità, distaccata quanto basta per non farsi coinvolgere.
“Grazie padre ma ora voglio stare un po' da solo, avrò tutto il tempo del mondo per spiegare le mie ragioni al buon Dio, senza che lei si disturbi a fare da intermediario”.
Il prete rabbrividì di fronte a cotanta arroganza, e si avviò verso la porticina della cella facendosi il segno della croce. “Abbi pietà di lui, che non sa quello che fa”, pensò varcando il confine tra prigionia e libertà, senza pensare che forse quel pensiero, tenendo fede alle sacre scritture, avrebbe potuto essere considerato indice di superbia, un peccato capitale, mica una cosa da niente.
“Avrai pure tutto il tempo del mondo, ma tra cinque minuti passo a prenderti lo sai vero?” Si intromise Collins da dietro la spalla destra.
Tipica faccia da sbirro, con comportamenti adeguati, Collins. Quadrato, pelato, e stronzo quanto basta per ricordarti che la divisa la porta lui.
In quella cella si stava celebrando un inno allo stereotipo. Peccato che lui, Bateman, non avesse la possibilità di verificare se anche lui faceva parte della festa, con i suoi bravi occhioni assenti da manzo condotto al macello: un giudice qualche tempo prima aveva decretato che non poteva tenere uno specchio in cella, visto mai lo rompesse e usasse i vetri rotti per tagliarsi le vene.
Cosa potesse importare poi, a quel bravo padre di famiglia, delle modalità della sua morte, a Bateman non era dato sapere.
Sapeva solo che il giudice, come il governatore, il procuratore e il capo del carcere ci tenevano molto a che lui morisse con tutti i crismi, una scossa elettrica alle ore 24:00 del 14 ottobre 2007.
“Tutto indolore” gli aveva assicurato un secondino l'indomani del rigetto della sua domanda di grazia.
“Vorrei sapere chi cazzo te l'ha confermato, brutto stronzo”.
Disse Bateman accendendosi una sigaretta.
Si rese conto che stava parlando da solo, vergognandosene un poco.
Poi pensò che in fondo non aveva nulla di cui vergognarsi, e che anzi un bel monologo alle tre pareti e alla grata di ferro che gli avevano tenuto compagnia in quei tredici anni nel braccio della morte sarebbe stato un congedo molto più dignitoso della famosa ultima frase pronunciata davanti al boia con il dito già pronto sull'interruttore della sua vita, pronto a spingerlo in posizione OFF.
Aspirò di nuovo dalla sigaretta, e si girò verso la parete di destra, quella di fronte la sua branda, con la macchia d'umido su cui puntava lo sguardo ogni mattina, appena sveglio.
“Non crediate che abbia paura del dolore” disse a voce alta buttando fuori il fumo.
“E tantomeno della morte” la brace della sigaretta si accese ancora, nella penombra della cella.
“Semplicemente, tutto questo mi dispiace” sbuffò verso la parete di sinistra, quella con il tavolino pieno di libri, letti e riletti.
“Mi dispiace, e mi pare grottesco” ravvivando l'unica luce viva in quell'angolo di mondo.
“A chi serve ora la mia morte, a che cosa serve?” gridò ricevendo come unica risposta l'eco della sua voce nei corridoi vuoti.
“Forse serve a tutta questa brava gente qui fuori” guardando la punta della sigaretta consumata a metà.
“A farli sentire più sicuri” inalando il fumo che gli accarezzava le narici, con un'intimità che gli appariva come un sentimento del tutto nuovo.
“Forse il giudice che mi ha condannato, il governatore che mi ha negato la grazia, il poliziotto che mi accompagnerà alla fine, il boia che mi ammazzerà stanotte si addormenteranno sereni, convinti di aver fatto del loro meglio per rendere il mondo un posto migliore” avvicinando il filtro umido di saliva alla bocca.
“Hai finito di dir cazzate? Muoviti che è ora”. Disse Collins aprendo la cella.
“Ma... la mia sigaretta...”
“Avrai tutto il tempo per fumare davanti al buon Dio, magari spiegandogli le tue ragioni!”. Disse il poliziotto schiacciando la sigaretta nel posacenere, ammanettandolo e strattonandolo fuori dalla cella.
E questa è l'ultima immagine che ricordiamo di Patrik Bateman, strattonato fuori dalla sua cella per l'ultima volta.
Cosa gli accadde oltre quella soglia a noi non è dato sapere, possiamo solo immaginare.
Possiamo immaginare la sua impassibile freddezza abile a nascondere l'inquietudine di un uomo posto consapevolmente e legalmente di fronte alla sua morte, mentre gli viene bagnato il capo e gli vengono attaccati elettrodi su tutto il corpo.
Possiamo immaginare il suo sdegnoso rifiuto all'invito del boia a pronunciare le sue ultime parole, già affidate al fumo della sua ultima sigaretta.
Possiamo ma non vogliamo immaginare le contorsioni innaturali del suo corpo legato e immobilizzato percorso da una scossa di chissà quanti volt.
E purtroppo non possiamo immaginare la fredda professionalità del medico incaricato di tastargli il polso, alla ricerca di una qualche residua forma di vita.

Dopo che Bateman fu portato via restammo ancora un po' a contemplare la sua ultima sigaretta, schiacciata malamente dalle mani rozze del poliziotto, e non spenta del tutto.
Restammo affascinati a guardare come la piccola scintilla superstite si aggrappasse al più piccolo spuntone di tabacco, alla più misera strisciolina di carta per alimentarsi e rimanere in vita, proiettando in aria volute di fumo grigio-bluastro quasi a ribadire la propria sopravvivenza.
Restammo ancora un po' a guardare quei tristi arabeschi alla luce fioca e innaturale del corridoio.
Poi, all'improvviso, la luce sobbalzò, spegnendosi del tutto per qualche istante, sopraffatta da una calo di tensione la cui causa preferimmo ignorare.
Quando la luce tornò, la sigaretta era spenta, e a noi non rimase nulla più da guardare.